Elland Arena, fine maggio. Migliaia di persone hanno fatto la fila sin dalle prime ore del mattino per ascoltare il proprio beniamino. Quando infine sale sul palco la folla esplode in un boato.

Solo il giorno prima Donald Trump ha messo al sicuro la nomination raggiungendo la soglia dei fatidici 1.237 delegati che lo sosteranno nella convention di luglio a Cleveland.

C’è dunque un pizzico di soddisfazione in più nel sorriso tronfio stampato in faccia all’uomo che si concede il bagno di folla in questo hinterland agricolo. La sua vittoria per forfait (degli altri pretendenti repubblicani che un tempo furono addirittura 16) ha aperto un interim singolare nel processo elettorale già senza precedenti di quest’anno.

Dopo essersi insinuato come un corpo estraneo ed aver espugnato il partito tradizionale della destra conservatrice, l’uomo che dal palco saluta i suoi sostenitori in visibilio all’interno del palazzetto dello sport, avrebbe ragionevolmente dovuto cominciare a ricompattare le fila e riconciliarsi con quell’establishment che prima lo ha strenuamente combattuto ed ora fa le contorsioni per razionalizzare la sua candidatura. Trump invece non da cenno di essere «addomesticato».

Rimasto senza avversari ufficiali sembra impegnato in una campagna personale e trasversale in cui gli attacchi a Hillary Clinton si mescolano a bordate contro i giornalisti che lo interrogano e la derisione di membri del suo stesso partito: il sindaco di San Diego, la governatrice del New Mexico: chiunque egli ritenga non gli abbia mostrato sufficiente rispetto o «endorsement». Ma come è stato sin dall’inizio ogni diverbio con l’istituzione non sembra che giovare al rapporto col suo «popolo».

Mentre gli ideologhi di partito di stracciano le vesti, per la base l’ortodossia ideologica è l’ultima delle considerazioni. L’importante è che nel miliardario «ribelle» abbiano infine trovato un paladino che parla la loro vera lingua.

Lo dimostra l’entusiasmo con cui lo saluta sventolando bandiere, cartelli e cappelli da cowboy. «Poco fa parlavo con un gruppo di agricoltori, grandi agricoltori, e mi dicevano ‘non si capisce, non ci si capisce nulla’ e poi parlavo con una altro amico mio che ha una fattoria qui in California e anche loro non hanno acqua, è pazzesco! E io gli faccio: ‘cos’è – la siccità?’ e loro: ‘macché, di acqua ce n’è un sacco’, e io: ‘e qual’è il problema allora?’ e loro: ‘è che la buttano tutta in mare’ e io: ‘perché?’ e pare che nessuno lo sappia – nemmeno gli ambientalisti che pensano a proteggere dei pesciolini di 5 cm…Pensateci. Nessuno sa perché. (E a proposito io ho vinto un sacco di premi per l’ambiente, no, davvero, premi e ricompense. Me la sono cavata davvero bene con l’ambiente io.

Sono il primo a difendere l’ambiente) ma c’è sempre qualcuno che vuol mettersi di mezzo, forse è per il loro ego, non lo so…c’è sempre un sacco di cose..e lo sapete, noi vogliamo posti di lavoro e se portiamo l’acqua in questa parte del mondo che abbiamo, ce l’abbiamo! Ma è proprio così mi hanno dato così tanti premi in questo settore e sono così fiero…e ci sono in sacco di bravi ambientalisti grande gente ambientale (sic, ndr) davvero…il mio standard ambientale è molto semplice e l’ho detto un sacco di volte: voglio aria pulita e acqua pulita, basta – molto, molto semplice. Ma ad ogni modo, torneremo qui e apriremo i rubinetti così gli agricoltori sopravviveranno e il mercato del lavoro migliorerà….»

Poco dopo aggiungerà: «Quelli vi dicono di essere d’accordo con voi, ma appena vi girate, dicono lo stesso agli ambientalisti, ve lo garantisco io che li conosco bene».

Il passaggio è emblematico per come ignora bellamente i fatti ma stabilisce una complicità con il suo pubblico. Lui, miliardario di straordinario successo e ricchezza, come non cessa di rammentare, è però anche «uno di voi», un sodale delle platee perlopiù proletarie a cui rivela le perfidia segreta della casta smascherandone gli ipocriti sofismi.

Quella dell’acqua in California, nella fattispecie, è una problematica storica assurta di recente ad emergenza ambientale con cui si sono cimentate generazioni di politici – un nodo gordiano che Trump trancia di netto.

Il «negazionismo ambientale» è prassi conservatrice ma l’insinuazione che la micidiale siccità che sta martoriando la regione sia in qualche modo manovrata è una vera enormità; nel pubblico di Trump provoca scrosci di applausi e i soliti cori di U-S-A, U-S-A!

supporter di Trump
supporter di Trump

In questa variante della sua auto-agiografia Trump diventa «portatore dell’acqua» nella California riarsa e benevolo bonificatore del paniere inaridito. Come se questa regione, la Central Valley, non fosse stata oggetto di una delle irrigazioni più intensive al mondo, una mastodontica bonifica che ha dirottato fiumi, plasmato un secolo di agricoltura industriale e in gran parte provocato gli odierni scompensi idrici e ambientali. È storia acquisita in questa valle, eppure si scioglie come d’incanto dinnanzi alle parole del demiurgo Trump osannato dalla folla che sventola gli Stetson e i cartelli «Farmers for Trump».

Trump ha scoperchiato le oceaniche riserve di anti intellettualismo, fonte inesauribile e rinnovabile dell’animus «middle-americano» contro le élites e quindi anche contro quei «gufi» di scienziati. I suoi comizi sono la celebrazione rituale di questa congenita diffidenza, e allo stesso tempo del proprio smisurato successo che lo legittima berlusconianamente come vincitore-capo, unico leader qualificato a guidare la nazione. E ogni discorso comprende quindi una narrazione della propria tautologica infallibilità dato che nothing succeeds like success.

«….Abbiamo vinto con dei margini pazzeschi e li abbiamo messi ko, e a proposito avete notato che dicevamo che non ci sarei riuscito prima di luglio… e alcuni di questi commentatori, la gente più disonesta al mondo». Accorrono a sentirlo e Trump offre la catarsi momentanea e la liberazione dalla «correttezza politica» a cui sono stati costretti dalla cultura imperante: «…Ho vinto con gli uomini e ho vinto con le donne, sapete con gli uomini sto rompendo ogni record ai seggi (urla indistinte dal pubblico )…cosa? Anch’io vi voglio bene..stanno urlando ‘le donne ti amano’ beh anch’io amo le donne…..altroché se amo le donne credetemi, aaaamoo le donne – aaaamo le donne e sapete che altro? Ho un sacco di rispetto per le donne, un monte di rispetto, credetemi …insomma ho vinto con gli uomini e ho vinto con le donne, ora coi maschi faccio record per questo sono in testa, faccio record di uomini, nessuno ha mai visto numeri del genere – agli uomini piace Trump… io preferirei vincere con le donne. Al diavolo gli uomini! Che mi frega di loro – datemi le donne!»

Oltre alla misoginia da osteria, il dato saliente del siparietto è l’ammiccamento al pubblico. Trump il guascone è il «veicolatore» di una schiettezza pecoreccia e liberatoria. Come Putin, come Berlusconi (e le ultime aberrazioni della stirpe: Duterte!), è uno strongman, il maschio forte che strizza l’occhiolino al suo pubblico che fa apposta a disobbedire al galateo ipocrita e stolto dei timidi: «…Posso dirlo..? Lo dico? Avevo promesso che non lo avrei più fatto che sembra non stia bene dirlo di una donna…. e va bene: ‘Crooked Hillary ha una voce insopportabile strilla sempre da far venire il mal di testa».

La scenetta manda in visibilio il pubblico – uomini e donne – che esultano per la trasgressione del capo, che a sua volta concede il bis: «Vi ricordate Ted Cruz? Com’è che lo chiamavo?….No non lo voglio dire che adesso che ho vinto ho promesso che facevo il bravo così unifichiamo il partito…vabbè…:’Lying’ Ted – Ted il Bugiardo, no, no non lo voglio dire, non lo dirò: Ted il Bugiardo…»

Giù altri applausi. Il pubblico conosce a memoria il canovaccio, invoca le battute più famose («dicci il muro!») e gode del botta e risposta. È quasi una rappresentazione rituale che come nel teatro popolare contiene caratteri stereotipati, gestualità esagerata, smorfie, improvvisazione e buffonerie. I suoi comizi hanno contorno di sbandieratori, reduci mutilati, hell’s angels e marjorettes minorenni…un compendio di kitsch americanista ai minimi termini su cui lui presiede come un maestro di cerimonie. È un ethos che Trump brandisce intenzionalmente («abbiamo vinto con i non istruiti, amo i non istruiti…» aveva esultato dopo la prima primaria vinta in New Hampshire).

E il leader si bea della retorica semplificata che impiega – è l’anti Obama per eccellenza, l’opposto del presidente eloquente, laureato ad Harvard – un timido secchione se non peggio: un «professore» come lo chiamano con disprezzo le radio di destra.

Comunque un «primo della classe» – il peggiore degli epiteti per le platee di Trump che ad occhio e croce non hanno mai avuto grande dimestichezza coi banchi della prima fila. Nessuno prima ha incarnato meglio la paura e il delirio anti intellettuale così indelebilmente americano. L’antecedente più diretto è forse proprio Ronald Reagan anch’egli fautore di un linguaggio impoverito (prima fortemente osteggiato dall’establishment repubblicano poi fautore di un ribaltamento populista al suo interno).

Nella locuzione reaganiana non contavano fatti e cifre (il suo decalogo prevedeva anzi di starne appositamente alla larga in dibattiti e comizi perché «in una campagna politica è sufficiente indicare di una direzione»). Pressato su dettagli, programmi di governo, Trump insiste: «non vi preoccupate, prenderemo le menti migliori, risolveremo il problema».
Trump getta nella mischia alcuni slogan di destra in ordine sparso ma come Reagan non è un conservatore ortodosso. Promette di tagliare all’osso le tasse ma poi garantisce che salverà la sicurezza sociale. Assicura un esercito potente come mai nella storia ma aggiunge che gli Usa non pagheranno più per la sicurezza degli alleati. Ha ammesso l’utilità dei consultori femminili di Planned Parenthood e dell’istruzione pubblica inimicandosi per sempre i talebani del Tea Party e dello stato minimo….oltre ai falchi neocon.

In questa mescolanza di nozioni alla rinfusa, il dato fisso è un eccezionalismo rudimentale che galvanizza queste retrovie piene di pistole e di bandiere, una nazione orfana di miti rottamati, tartassata dalla globalizzazione e dalla finanza che da grattacieli lontani gli ha venduto mutui carta straccia. A questo paese si rivolge Trump, col suo linguaggio intriso di violenze primordiali, promettendo una improbabile riscossa, di renderla nuovamente eccezionale: make America great again.

Come gli incontri di wrestling che non a caso fanno parte del suo curriculum televisivo, i comizi sono sceneggiate manichee fra buoni e cattivi, narrative semplificate che contrappongono l’America virtuosa ai nemici di turno, (gli stranieri, i musulmani, i politici…) ma sempre con lo stesso campione.

Trump incita, aizza e imbonisce il suo pubblico col suo repertorio. Come quello immancabile del muro – totem dell’involuzione trumpiana d’America.

La mitologica barriera anti-Messicani sul confine viene citata a più riprese anche a Fresno scatenando ogni volta scrosci di applausi e tifo da stadio. Come tutte le greatest hits è proprio questa anche la battuta del bis.

Prima di salutare Trump getta un ultimo brandello di carne viva ai sostenitori famelici: «Il muro, certo che lo costruiremo, non ci pensate nemmeno un attimo, è come fosse già costruito…lo costruisco. E a chi lo faccio pagare…?»  «Al Messico», risponde come un sol uomo il pubblico che sembra non aspettasse altro che questo momento per chiudere la rappresentazione.

In attesa della prossima replica per l’America rimane l’inquietante l’interrogativo se sarà questo showman il prossimo presidente. E se pure non dovesse essere, cosa sarà delle forze incontenibili e inconfessabili che ha scatenato?