La prima intervista di Obama dopo l’elezione di Donald Trump radiografa il tempo della crisi. Vorrebbe essere ovunque fuorché lì, vorrebbe essere così tranchant e invece sembra quasi terreo, spento; risponde ai giornalisti convocati alla Casa bianca spostandosi sugli argomenti – tutti relativi a Donald Trump – come se danzasse sui cristalli: ogni parola è soppesata, meditata, volta a rassicurare che Trump «farà del suo meglio»; in realtà Obama sta prefigurando un futuro disastroso che da presidente e soprattutto da americano non è possibile verbalizzare, eppure da quegli occhi e dalla spossatezza traspare un disagio infinito. E adesso? Lo stesso disagio che ha colto Yoko Ono all’indomani delle elezioni quando ha postato su twitter la sua reazione: niente parole solo un urlo primordiale; più o meno simile a quello di John Lennon sul pezzo Mother nell’album del 1970 John Lennon/Plastic Ono Band. In quei giorni l’ex Beatle e Yoko erano in cura da Arthur Janov, lo psicologo Usa inventore della terapia primaria, il primal scream, l’urlo primordiale, spontaneo che libera dal dolore represso dei traumi infantili e rigenera.

Se Yoko è tornata a tanto, la situazione deve essere proprio grave. Le ha fatto eco Chuck D, leader e voce storica dei Public Enemy, che gettando al vento decenni di pratiche analitiche e possibili riserbi ha sentenziato: «Hitler is real», c’è davvero; e Puff Daddy, più cosmico: «Keep calm, no matter who is president, Jesus is king», state calmi tanto c’è Gesù che ci salva. Ma non tutto è perduto; nell’abisso del conflitto sociale e politico in cui gli Usa – e non solo – stanno per precipitare (nonostante gli scongiuri e le rassicurazioni obamiane), l’arte potrà avere un ruolo determinante, come è sempre stato nei momenti di grande criticità del Novecento (e oltre) e come sempre sarà. Parliamo di musica. Queste ultime elezioni hanno evidenziato che la musica non serve a mutare il corso di una votazione. Non a caso Hillary Clinton è stata fiancheggiata da una teoria di artisti che si sono spesi (Madonna anche spingendosi a voluttuose promesse) fino all’ultimo giorno, come se strane, perverse vibrazioni avessero cominciato a propagarsi nell’aria, e sappiamo come è finita.

Se dunque la musica non serve a mutare i destini del mondo, a fermare guerre e presidenti, aiuta però a rendere meno noiose rivoluzioni e sommovimenti. Come sarebbero state le mobilitazioni anti-Vietnam, i nostri anni Settanta, le proteste anti-Thatcher o Reagan, quelle contro la crisi finanziaria del 2008 o le primavere arabe senza una opportuna colonna sonora? Molto più letargiche, trasparenti e forse invisibili.

Si dirà che in passato una canzone di Bob Dylan o dei Sex Pistols arrivava dritta come un frecciarossa mentre oggi l’orizzontalità della rete può tendere a disinnescare un movimento, un’idea. Forse. Ma le risposte soffiano sempre nel vento e adesso tira aria di bufera. E così come nessuno ha saputo prevedere il ciclone Trump, ancora non è dato sapere in che stili e modi la musica (nella sua accezione più ampia e interetnica ) saprà rappresentarsi. Alla fine, però, succede e ogni forma di rabbia e antagonismo trova sempre le sue debite propagazioni.

Del resto conviviamo con la rabbia dalla notte dei tempi, e non è un caso che l’ultima autobiografia di John Lydon (Johnny Rotten) si intitoli proprio Anger Is an Energy, ossia la rabbia è un’energia, una scintilla creativa che sprigiona idee, eventi, movimenti e sommovimenti. Ricordo un vecchio articolo sul Corriere della sera di Claudio Magris (poi ripreso anche nel suo volume Alfabeti): evidenziava come alle origini e alle radici dell’occidente ci sia proprio l’ira come peraltro ribadito dal primo verso del poema che fonda la nostra civiltà: l’Iliade («Cantami, o diva, del Pelide Achille l’ira funesta»).

Ovviamente si sta parlando di una passione negativa, portatrice di sventura, anche se inizialmente giusta (Achille subisce effettivamente un’offesa, derubato da Agamennone di Briseide, la sua schiava più bella). L’ira che ci interessa non è però la furia selvaggia e incontrollabile dell’eroe greco, è quella che ha animato, ad esempio, il rock nel senso più movimentista e rivoluzionario del termine. È un’ira giusta e anzi doverosa, una risposta non solo psicologicamente ma anche e soprattutto – quando la storia chiama – eticamente motivata e necessaria. Una rabbia, quindi, che lascia il segno e cambia i rapporti di forza, non quella che degenera nell’eccesso (altrimenti si finisce all’inferno tra gli iracondi di Dante), una rabbia che segue naturalmente all’indignazione.

In tal senso il compito del rock è paradossalmente tanto più alto se si pensa che proprio quel fenomeno e quella cultura non furono affatto generati da una criticità politica e sociale ma da un boom economico senza precedenti. Di sicuro la seconda guerra mondiale aveva lasciato da più parti traumi e macerie ma non direttamente dentro gli Stati Uniti che riuscirono a trasformare la macchina bellica in una sconvolgente economia di consumi.

Da qui la nascita del teenager e della sua musica, il rock’n’roll, due fenomeni del secondo dopoguerra inventati da una società dell’abbondanza che poteva permettersi di posporre l’età adulta per molti dei suoi figli.

In seguito la musica è cambiata e a grandi crisi economiche, politiche, sociali è quasi sempre corrisposta una travolgente creatività musicale. Basti pensare al punk, incardinato in Europa in una depressione economica poi sfociata negli anni della Thatcher. Con Sex Pistols, Clash e dintorni che non furono solo una reazione estetica ai suoni che li avevano preceduti ma significarono anche e soprattutto il boicottaggio di un’idea di mondo che la Thatcher andava prefigurando. Allo stesso modo l’etichetta 2Tone e lo ska revival (Specials, Selecter, Madness) proposero in tempi successivi un’idea di gruppi integrati come risposta alle crescenti tensioni etniche e ai razzismi interni alla Gran Bretagna.

Negli Usa furono gli anni di Nixon a strutturare l’hip hop. Che nacque proprio dalla necessità di riorganizzare in creatività artistica le tensioni interne al ghetto, gli strascichi del Vietnam, la discriminazione razziale diffusa. Dimostrando che a grandi rivoluzioni artistiche non corrispondono quasi mai economie fiorenti e società pacificate. Ce lo ha insegnato prima Woody Guthrie e poi Dylan.

In Italia, in tempi più recenti, il movimento della Pantera (dal 1989) e la stagione delle posse si riveleranno l’unico fermento veramente creativo, innovativo e dal basso del nostro paese. Soggetti artistico/politici come Onda Rossa Posse solleciteranno una ridiscussione di linguaggi e suoni che cambierà per sempre il modo di intendere e fare musica nel nostro paese.

E così fino agli anni Novanta, vero abisso creativo, caratterizzati da una prosperità economica non in grado di guardare in avanti ma ripiegata e appiattita su un riciclaggio culturale (che arriva fino ad oggi) che si rivelerà totale e totalizzante. Perché quanto più l’inconscio risulta influenzato da media (televisione e cinema soprattutto) in cui immagini di epoche diverse coesistono nello stesso spirito del tempo tanto più si è indotti a perdere il senso della propria storicità. Gli Oasis e i britpopper in genere che scimmiottavano (a volte anche con gusto) i Beatles e le riproposizioni di saghe come Mission Impossible, venivano di sicuro percepite come storie del passato ma allo stesso tempo risultavano le uniche prospettive culturali possibili. Non a caso Kurt Cobain «molla la presa» nel momento in cui avverte di non far più parte del suono della crisi, quando sente sempre più distanti gli echi del primo album in cui era ancora possibile estremizzare verbalmente e musicalmente apatie, disincanti, orrori e tensioni adolescenziali già tratteggiate, tra i pochi, negli anni edonistici di Reagan dagli amici Sonic Youth.

All’orizzonte – dopo Cobain – ci sono i Metallica con l’orchestra o le derive sempre più pop dei Red Hot Chili Peppers: insomma tutto è finito; e così fino alle insurrezioni sonore di Occupy Wall Street, ultimo fremito prima delle pacificazioni nazionali e internazionali poco riuscite di Obama che per intenti, provenienza e cultura ha sempre continuato a incarnare un modello di speranza progressista. O quantomeno ci è sempre piaciuto immaginarlo. E adesso? Adesso si ricomincia a ballare sull’orlo dell’abisso.