A ritrovarselo fra le mani, un malloppo di 882 pagine può fare un po’ impressione. Invece è una fortuna che Il Cartello, di Don Winslow, edito da Stile Libero Einaudi e tradotto alla perfezione da Alfredo Colitto, sia così voluminoso. È uno di quei libri che se lo cominci verso sera, all’alba ti scopri ancora intento a divorarlo: fosse stato più smilzo, avrebbe lasciato il classico rimpianto dei libri che finiscono troppo presto. Però i 22 euro della spesa li sarebbe valsi comunque.

In copertina scintilla l’elogio di James Ellroy: «Il Guerra e Pace della lotta alla droga». Però in questo seguito de Il potere del cane, sinora capolavoro di Winslow ma stavolta superato, di pace non c’è traccia. È la cronaca puntuale e sanguinosa di una guerra feroce e interminabile, una guerra di tutti contro tutti ma con i civili sempre al primo posto nella linea del fuoco: quella «contro la droga» scatenata dal governo messicano con alle spalle e di fianco quello americano tra il 2004 e il 2012, alla quale si accompagnava quella per il controllo del mercato della droga ingaggiata dai vari cartelli dei Narcos. Con il governo e l’esercito schierati a loro volta a fianco di questo o quel cartello e, in nome della realpolitik, anche la Dea americana impegnata spesso a sostenere «il male minore».

Una cinica ipocrisia

Il termine «guerra» lo si usa il più delle volte a sproposito. In questo caso calza a tragico pennello: quel conflitto non dichiarato e combattuto nella distrazione del mondo è costato quasi 150mila tra morti e desaparecidos. È stato costellato di atrocità che al confronto quelli di Daesh sono educande. Ha devastato regioni, desertificato città, decimato popolazioni. Winslow lo racconta e lo descrive passo dopo passo, strage dopo strage: le mutevoli alleanze, i rovesciamenti di fronte, i tradimenti, le intese inconfessabili.

Scandaglia i rapporti osmotici tra potere politico e potentati criminali, spesso ma non sempre dovuti a corruzione: viene il momento in cui persino chi i Narcos vorrebbe davvero abbatterli si rassegna a fare fronte con quelli che, per lo meno, sterminano e stuprano e torturano un po’ meno degli altri. Indaga il ruolo sempre più ambiguo degli Usa e della Dea, inchiodandoli al loro cinismo e alla loro ipocrisia.

È un’opera di fantasia il romanzo di Winslow, come l’autore si premura di specificare, ma solo per quanto riguarda i moltissimi personaggi. Certo non per quanto attiene al quadro generale e al contesto in cui si muove quella schiera foltissima, in cui i comprimari contano quasi quanto i protagonisti e forse anche di più.

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L’ambizione di scrivere di storia, non solo di raccontare una storia, è palese e coronata da successo. Lo stesso proliferare di personaggi non è gratuito: risponde all’esigenza di restituire al lettore la tragedia corale di un intero Paese, dall’autore molto amato,e dei suoi disgraziati abitanti.

Ma il grande romanzo di Don Winslow è anche «una storia», quella dell’agente della Dea Art Keller e del patròn del potente cartello di Sinaloa Adàn Barrera, già protagonisti del Potere del Cane. La storia di un duello, di una reciproca caccia all’uomo, di un odio privato che si intreccia con la vicenda complessiva di un Paese in cui l’odio ha fatto piazza pulita di ogni altro sentimento. Per sconfiggere il diavolo, il cattolico Art Keller deve padroneggiarne gli strumenti, deve dispensare omicidi, coltivare il tradimento, sacrificare innocenti, finché la linea di confine tra chi sta dalla parte giusta e chi no diventa evanescente, pur senza scomparire. E alla fine del sanguinoso gioco, per chi ha vinto, non resta altro che un’infinita espiazione. Bisogna essere molto bravi per tenere in equilibrio così eccellente narrazione romanzesca e descrizione storico-giornalistica. Libro dopo libro, Don Winslow lo è diventato.

Il Cartello è anche un libro pieno di efferatezze, quasi non c’è pagina senza la sua brava atrocità. All’inizio si può sospettare la ricerca compiaciuta dell’effettaccio splatter, una deprecabile indulgenza alla pornografia dell’orrore. Poi, pagina dopo pagina, ci si rende conto che quegli orrori squadernati a uso dei lettori degli Usa e dell’Europa sono il riflesso di una indignazione sincera, fino a che sembra quasi di sentire lo scrittore tremare di rabbia mentre sbatte in faccia ai suoi lettori quella realtà che per anni hanno voluto ignorare, costringendoli ad assaporarne il sapore disgustoso.

È una rabbia rivolta, ancor più che contro gli eserciti di assassini spadroneggianti, contro quelli che reggono i giochi dall’altra parte del Rio Grande.

Una pessima mitizzazione

Negli Usa, dove il potere forma con i signori della droga e il governo messicano corrotto un unico Cartello che ha scatenato un conflitto che «non è la guerra alla droga ma la guerra ai poveri». Negli Usa, dove si continua a parlare del «problema messicano della droga», come se il problema fosse quello di chi offre una merce e non di chi la richiede. «Quanto deve essere corrotta una società perché i suoi cittadini cerchino droghe per fuggire dalla realtà al prezzo di sangue e sofferenze dei loro vicini?», si chiede il giornalista Pablo Mora, uno dei personaggi migliori del romanzo nel suo intreccio di debolezza e resistenza morale, di viltà e alla fine di eroismo, a cui spesso l’autore affida il suo pensiero.

Quando si trae un romanzo dalla realtà, è facile cedere alla tentazione di trasformare i tagliagole in eroi popolari: gli esempi abbondano. È una sirena che non incanta Winslow. I Narcos sono restituiti in tutta la loro miseria, nella banalità del loro sadismo. Le colpe degli Usa non bastano ad assolverli. Spesso, peraltro, la mitizzazione romantica serve ad evitare il rischio di sbilanciare la narrazione a favore dell’aspetto saggistico e a scapito di una trama avvincente.

Il Cartello dimostra che se ne può fare a meno: dice sulla «guerra della droga» più di quanto abbiano detto Puzo della mafia o De Cataldo della Magliana. Però è anche il miglior e più avvincente romanzo d’azione degli ultimi vent’anni.