Nato nel 1929 e morto alla vigilia del nuovo millennio, Don Robertson è una delle riscoperte letterarie più importanti degli ultimi anni. Negli Stati Uniti al suo rilancio ha lavorato Stephen King, dichiarando di considerare Robertson un maestro di stile e di coerenza narrativa, ma dopo un breve ritorno di fiamma nello scorso decennio l’interesse sembra già essersi spento. In Italia invece l’autore, del quale era stato tradotto il solo Due armate per una bandiera, più di cinquant’anni or sono, gode oggi di una popolarità crescente grazie all’eccellente lavoro di Nutrimenti (e del curatore e traduttore Nicola Manuppelli), che partendo dal memorabile L’uomo autentico – storia di vecchiaia e vendetta con un’introduzione proprio di King – ha già proposto altri due tra i suoi titoli più significativi: il colossale romanzo in due volumi Paradise Falls, che prende il titolo dalla immaginaria cittadina dell’Ohio al centro di quasi tutte le opere di Robertson e ne ricostruisce, attraverso una serie di vicende individuali e insieme esemplari, le trasformazioni durante una delle fasi più complesse e drammatiche della storia americana, tra la Guerra di Secessione e la fine dell’Ottocento, e il crepuscolare e al contempo vitalissimo L’ultima stagione.

L’intento dichiarato dell’editore è quello di proporre tutti e diciotto i romanzi pubblicati in vita da Robertson: prima, tuttavia, Nutrimenti ha pubblicato in questi giorni un’opera inedita, ripescata direttamente dal «cassetto» dell’autore grazie all’ausilio della moglie, Sherri: Julie (traduzione di Nicola Manuppelli, pp. 222, € 17,00) autoritratto di una donna complessa e irriverente che dall’infanzia fino alla morte prematura costeggia alcune tappe cruciali del «secolo americano»: la Grande Depressione, la Seconda guerra mondiale, la Guerra di Corea, l’omicidio Kennedy e il Vietnam, tra le altre.

La morte, una ricorrenza
Per chi non ha già avuto modo di leggere gli altri quattro titoli di Robertson disponibili in Italia, questo romanzo agile, imperfetto come spesso accade con le opere pubblicate post-mortem, può rappresentare un’occasione preziosa per entrare nell’universo narrativo dell’autore: un mondo coeso nel quale quasi tutte le storie raccontate, attraverso il ricorrere di diversi personaggi o dei loro discendenti, comunicano tra loro, pur mantenendo individualmente una piena indipendenza.

Julie è prima di tutto un romanzo-voce: nulla in tutto il libro è estraneo a Julie Sutton, nulla evita il filtro della sua personalità e dal suo specifico modo di raccontare. Di certo, Julie non è una protagonista qualunque: bambina solitaria, cresciuta accanto a una madre alcolista e a una sequela di amanti, uno più goffo e improbabile dell’altro; aspirante pianista frustrata dalla paura del palcoscenico; adolescente immersa in una storia d’amore dall’esito tragico (una sorta di Love Story al contrario, come la stessa Julie la ridefinirà cinicamente, nel vano tentativo di scrollarsi di dosso un dolore che resiste sordamente al trascorrere degli anni); adulta libertina e inguaribile bugiarda. Julie è tutto questo, un personaggio sfaccettato, capace di lanciare sul mondo e sulle persone che incrocia lungo il proprio cammino uno sguardo ora sarcastico fino all’irriverenza, ora pietoso e partecipe.

Come già in L’uomo autentico e nell’Ultima stagione, la morte attraversa quasi ogni pagina di Julie, ora come presagio, ora come presenza concreta, fino a impadronirsi della stessa voce narrante, e spegnerla. Ed è contro la morte, accettandone l’ineluttabilità ma al contempo riscattandola attraverso il racconto emozionante dell’istante in cui la vita di chi amiamo ci viene tolta, che Julie leva alta la sua voce.
Il romanzo si apre con l’amata anatra Dippy schiacciata da un camion, e si chiude con la morte della stessa Julie, mentre attraverso lo sguardo della protagonista scorrono altre morti, invadendo l’intero libro.

La malinconia dell’autrice, tuttavia, viene mostrata quasi sempre in tralice: a imbrigliarla provvedono una voce a tratti di irresistibile comicità, e uno sguardo che, reso più limpido dal ricordo e dalla distanza, ci restituisce la galleria di personaggi che hanno incrociato la vita di Julie. Sono ritratti spesso memorabili, su tutti quello della madre, odiata e amata, rabbiosa ed esorbitante, ma capace di momenti che rasentano la tenerezza, piccole stille di amore evocate in righe superbe come questa: «Immagino che nulla sia semplice come vorremmo che fosse. Mia madre sapeva essere grigia e distante come gli occhi di un becchino, fredda come la mezzanotte a Duluth, e nel corso degli anni era ingrassata e si era ridotta a essere una stupida, ragliante, sciatta ubriacona, e certamente non avevo mai approvato la ferocia del suo odio per mio padre (che io non ho mai capito davvero, e nessuno ha cercato di spiegarmelo), e i miei ricordi di lei comprendono anche troppa impazienza e quasi nessuna serenità o risata. E comunque… c’erano altre volte… mi seguite?… C’erano altre volte, dicevo, in cui sentivo l’esigenza di baciarle le mani. Era mia madre, ed era la mia unica madre, e c’era fra noi una sorta di amore, per quanto stupito e riluttante».

Prediletto da Stephen King
Non tutto è perfettamente tirato a lucido, in questo romanzo che, come altri di Robertson, è costruito tramite un curioso modulo narrativo, a metà tra il finto memoir e l’annalistica (ogni capitolo corrisponde a un anno di vita della protagonista, ed è l’anno stesso a fornirne il titolo): non sempre le vicende individuali e la storia collettiva che si muove sullo sfondo entrano in risonanza, e non tutti i personaggi vantano lo stesso livello di definizione. Ma forse sono proprio questi «difetti di fabbricazione» che consentono meglio di ammirare, per contrasto, i «pezzi di bravura» dei quali il libro è pur sempre disseminato, e che nelle opere più riuscite e armoniche di questo prolifico autore costituiscono la norma.

Forza della voce narrante; perfetta costruzione dei personaggi – tutti, inclusi i minori; volontà di edificare una grande commedia umana che, avendo nella cittadina di Paradise Falls il suo centro, si irradi per tutta l’America: queste le grandi virtù che fanno di Robertson una scoperta importante e destinata a rimanere. E se non è scontato trovare riferimenti o modelli cui potrebbe avere attinto (viene in mente, comunque, almeno un altro grande ritrattista e cantore dell’Ohio come Sherwood Anderson), non è difficile capire perché un maestro del contemporaneo come Stephen King, che della caratterizzazione infallibile, della perfetta riconoscibilità delle voci e dei richiami interni tra un’opera e l’altra ha fatto il suo vangelo, possa considerare Robertson il suo autore preferito.