In mezzo alle centomila persone che ieri mattina affollavano il prato del Foro italico sul lungomare di Palermo per partecipare alla beatificazione di don Pino Puglisi «martire» di mafia c’era uno striscione che riportava una delle frasi che il parroco di Brancaccio era solito ripetere: «Se ognuno di noi fa qualcosa, allora si può fare molto». Associata ad un altro ricorrente invito del prete palermitano, quello a scegliere «da che parte stare» – fra la giustizia e la sopraffazione, fra il coraggio e l’omertà, fra la mafia e l’antimafia –, è la sintesi più efficace del ministero pastorale, ma anche civile, di don Puglisi. E la chiave per comprendere sia le ragioni che hanno spinto decine di migliaia di persone – gruppi organizzati come gli scout, semplici fedeli e cittadini, molti da fuori Sicilia – a partecipare alla cerimonia religiosa, sia l’apprezzamento che il prete palermitano raccoglie dai non credenti e da chi si colloca fuori dal tempio.

«Don Pino Puglisi non fu mai prete per mestiere», ha detto nell’omelia l’arcivescovo di Palermo, il cardinal Paolo Romeo. Non quindi «un onesto burocrate del sacro che amministra i sacramenti, insegna un po’ di catechismo e soccorre qualche famiglia in difficoltà, ponendo ai parrocchiani meno interrogativi possibili», spiega Augusto Cavadi, studioso palermitano dei rapporti fra Chiesa e mafia. Ma un prete che si impegnava nel territorio e si preoccupava dei bisogni anche materiali dei suoi parrocchiani: allora le lotte per la costruzione delle fogne, di un presidio socio-sanitario e di una scuola media a Brancaccio, quartiere feudo dei fratelli Graviano – condannati come mandanti dell’omicidio – lasciato nel degrado per mantenere i suoi abitanti dipendenti dai favori e dal dominio mafioso; le marce antimafia, gli scontri con i democristiani locali, i legami spezzati con i padrini in prima fila nella processione di San Gaetano, il patrono della parrocchia.

Lo ricordano i cittadini di Brancaccio che ieri erano al Foro Italico: «Avevo 15 anni quando l’ho conosciuto. Mi ha colpito la sua onestà limpida ma anche il silenzio assordante delle istituzioni quando denunciava i problemi del quartiere», racconta Mimmo De Lisi, oggi assistente sociale al centro Padre nostro di Palermo. Lo sottolinea il presidente del Senato Piero Grasso, all’epoca sostituto procuratore a Palermo: «Toglieva l’aria e il territorio ai mafiosi, accogliendo i ragazzi al centro Padre nostro, organizzando iniziative contro la mafia e la droga». E ancora l’arcivescovo Romeo: «Sottraeva alla mafia del quartiere consenso, manovalanza e controllo del territorio».

Suonano stonate le parole del cardinal Bagnasco, che però non era a Palermo ma a Genova, per i funerali di un altro prete di frontiera, don Andrea Gallo: «Don Puglisi è stato ucciso in odium fidei, per odio della fede, non per anti-mafia. Per questo motivo è stato dichiarato martire. Una lettura diversa, legata solo alla lotta alla mafia, è una lettura sociologica ed è gravemente riduttiva». Ma riduttive sembrano proprio le affermazioni del presidente della Cei, preoccupato di ricollocare entro il recinto del sacro la testimonianza e l’azione di Puglisi, indiscutibilmente animata dal Vangelo ma capace di uscire dalla sacrestia.

E proprio per questo apprezzata dai cattolici e da tanti non credenti. Che ieri hanno applaudito quando è stato scoperto il ritratto del parroco di Brancaccio – al momento della proclamazione della beatificazione – ma anche quando i celebranti hanno ricordato i magistrati Livatino, Falcone e Borsellino, uccisi da Cosa nostra non in odium fidei ma in odium vitae.