Ieri ha rivolto un appello al premier Conte sul decreto che dichiara l’Italia «porto non sicuro». Cosa ha chiesto?

Ho detto che se in questa fase di pandemia globale si seguisse la logica del decreto interministeriale non ci sarebbe nessun porto sicuro, in nessuna parte del mondo. Mai come oggi sono ancora più insicuri i porti libici. Anche il paese nordafricano ha dichiarato lo stato di emergenza per il Covid-19, ma a questo si somma la guerra in corso. Il generale Haftar continua a bombardare e non si è fermato neanche di fronte a un ospedale. Dove devono andare queste persone? Si vogliono abbandonare in mare? Non è possibile «usare» la pandemia come motivazione per non rispettare le leggi internazionali, evitare di salvare vite umane e proteggere chi fugge da una situazione come quella libica. Al premier ho chiesto che ci sia più solidarietà per chi ha bisogno di un porto sicuro e di protezione.

Il decreto dovrebbe rimanere in vigore fino al 31 luglio, probabilmente oltre la fine del blocco delle attività produttive. Cosa accade lungo la rotta mediterranea tra primavera ed estate?

Le persone non si fermano perché c’è un decreto. Continueranno a partire perché in Libia non esiste alcuna garanzia di sicurezza. Continueranno a fuggire e ci ritroveremo gente in mare, senza che nessuno li possa soccorrere. L’unica cosa che in questi giorni non è andata in quarantena è il porto sicuro per le armi. In Libia continuano ad arrivare e trovare porti aperti.

In questi giorni cosa sta accadendo lungo le rotte percorse dai migranti e nei centri libici?

Nelle settimane scorse abbiamo saputo di molte persone abbandonate nel deserto dai trafficanti. Nei centri di detenzione subiscono condizioni ancora più dure del solito. Le poche organizzazioni che riuscivano a visitarli, con la dichiarazione dello stato di emergenza, non possono più entrare. Anche quei pochi aiuti che potevano filtrare sono venuti meno. Dall’interno dei lager ci raccontano che manca l’acqua. Si dice che bisogna lavarsi, ma lì non c’è l’acqua neanche per bere. Non c’è cibo, c’è gente completamente deperita a causa della fame. Sono lager, chiamarli centri è un eufemismo. I maltrattamenti continuano come prima, ma in più c’è il terrore di essere contagiati e di finire sotto le bombe, visto che i cannoni continuano a farsi sentire.

C’è il rischio che il Covid-19 arrivi nei centri libici. Cosa dovrebbe fare l’Unione Europea?

In terra libica ormai non lo so. Almeno potrebbe fare in modo che nei centri controllati dal governo, dal cosiddetto «governo provvisorio», arrivino dei medici che verifichino quali sono davvero le condizioni di salute delle persone e cerchino un’altra soluzione di accoglienza che non siano i lager. Poi dovrebbe trovare il modo di evacuare le persone verso posti sicuri, da cui organizzare i ricollocamenti nei paesi in grado di accogliere. Prima di tutto occorre evacuare i lager per garantire assistenza sanitaria e umanitaria. Per quelli che sono riusciti a partire verso l’Europa, poi, bisogna trovare dei luoghi in cui accoglierli, tenendoli prima in quarantena per verificare bene il loro status di salute. È necessario arrivare a una soluzione umana. Non si può dire solo chiudiamo i porti e «chi c’è c’è, chi non c’è non c’è».

Qual è il messaggio della Chiesa in questo momento così difficile?

Il Papa ha affermato chiaramente che nessuno si salva da solo. La pandemia sta dando la più grande lezione all’umanità: nessuno viene risparmiato. Potenti o poveri siamo tutti sulla stessa barca. O affondiamo, oppure con la solidarietà e l’aiuto reciproco rimaniamo a galla. Il Papa sta dicendo che oggi bisogna essere ancora più solidali, perché questo bisogno riguarda tutti.