Il «reddito di inclusione» (Rei), approvato ieri dal Senato, prevede fino a 480 euro al mese per famiglie numerose e copre tre poveri assoluti su 10. Il ministro del lavoro e del Welfare Poletti lo ha presentato come il «primo strumento universale» contro la povertà in Italia.

Don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, la ritiene una misura adeguata?
È certamente un passo in avanti. Evitiamo il trionfalismo come il disfattismo di chi pensa sempre che si possa fare di meglio. Occuparsi di povertà e emarginazione – e non smettere di farlo, per questo parlo di passo in avanti – è un dovere della politica, che esiste per includere e per garantire la pari dignità delle persone. E, nel caso specifico, oltre che un dovere una priorità, un’urgenza. La crisi ha messo in ginocchio milioni di persone. C’è una disperazione diffusa che incontro ogni giorno, in ogni parte d’Italia. La politica deve mettersi nei panni degli altri, a cominciare da chi fa più fa fatica, dai poveri e dai fragili. Solo così può recuperare la sua funzione sociale e la sua forza profetica di strumento al servizio della dignità e della libertà di ognuno di noi.

Il fondo politiche sociali sarà tagliato di oltre 200 milioni, quello delle non autosufficienze di 50. È la cancellazione del disagio sociale dall’agenda politica?
Questo è un esempio di cattiva politica, o quantomeno di politica schizofrenica, che con una mano dà e con l’altra toglie. La riduzione dei servizi e delle politiche sociali è un dato drammatico di questi ultimi anni. I dati di Eurostat ci dicono che nel nostro Paese la spesa sociale destinata all’infanzia e alle famiglie è la metà della media europea (4,1% rispetto all’8,5%). E allora torniamo al discorso di prima. Non bastano le misure tampone – pure necessarie nell’emergenza – occorre un più ampio e organico disegno per ridurre le disuguaglianze e le forme di sfruttamento e di esclusione. Su questo la politica, salvo eccezioni, sembra incapace di formulare non dico progetti ma nemmeno parole all’altezza. Manca quella visione d’insieme che mi sembra emerga ad esempio nella Laudato sì di Papa Francesco, dove si parla di «conversione ecologica» e si afferma che le disuguaglianze economiche e lo sfruttamento del pianeta da parte di un sistema «ingiusto alla radice», sono facce di una stessa medaglia. Per tornare a essere non solo efficace ma autorevole, la politica deve misurarsi con questi orizzonti.

Libera partecipa alla Rete dei Numeri Pari che propone, tra l’altro, una misura universale per il reddito minimo, il reddito di dignità. Di cosa si tratta e che cosa intendete fare per portare all’attenzione dell’opinione pubblica le vostre campagne?
Al di là delle articolazioni tecniche, su cui meglio di me possono dire gli esperti, il «reddito di dignità» è una misura che mette appunto al centro la dignità della persona, quella dignità che decenni di politiche liberistiche – cioè di logica del profitto – hanno calpestato. Perciò non si tratta di una misura assistenzialistica ma inclusiva, volta cioè non solo a sostenere le persone in difficoltà ma ad accompagnarle affinché tornino a essere libere e autosufficienti. La dignità è incompatibile con il bisogno materiale e la negazione delle speranze. E una democrazia che crede di poter convivere col bisogno materiale e la disperazione di milioni di persone è una democrazia di facciata. Non è un caso che i padri della Costituzione abbiano indicato nel lavoro il valore fondante della nostra Repubblica.

Basterà una legge o un referendum per abrogare i voucher per cancellare la precarietà? Qual è il rimedio?
Non ho la presunzione di indicare rimedi. Certo è che la questione del lavoro è il nodo – direi insieme a quello dell’immigrazione – da cui dipendono i nostri destini. Non possiamo più permettere che il lavoro sia totalmente subordinato alla volontà di potenza della finanza, al diktat di parole generiche e ormai sospette come «crescita» o «innovazione». Non si tratta di essere nostalgici, di vagheggiare il ritorno a modelli di produzione superati dai fatti e dall’evoluzione tecnologica, ma di chiederci onestamente dove stiamo andando, dove ci porta una strada che aumenta le disuguaglianze, che mette la ricchezza sempre più in 3 mani di pochi impoverendo tutti gli altri. Lavoro significa dignità delle persone ma significa anche bene comune. Il lavoro deve essere un diritto universale, come universale deve essere la possibilità di godere dei suoi frutti, altrimenti non è lavoro, è sfruttamento. E allora c’è un grande impegno anche culturale che ci aspetta, perché abbiamo perso la nozione e direi anche il sentimento del bene comune. I beni comuni non posso obbedire alla logica del mercato perché bene comune significa vita. E la vita non è una merce in vendita.

Il 21 marzo Libera celebrerà la Giornata della Memoria delle vittime innocenti delle mafie. Perché oggi questa giornata è così importante?
Per una serie di motivi strettamente collegati a quanto abbiamo detto. Libera non ha mai messo al centro la «legalità» – che è diventata ormai un idolo, una parola tanto celebrata quanto strumentalizzata – ma la dignità e la libertà delle persone. La legalità, cioè l’uguaglianza di fronte alla legge, presuppone l’uguaglianza sociale, ossia la possibilità per ogni persona di usufruire dei diritti fondamentali: il lavoro, la casa, l’istruzione, l’assistenza sanitaria. La lotta alle mafie e alla corruzione parte da lì, dalla lotta per i diritti e per la dignità, dall’impegno per la giustizia sociale. È questo il senso della Giornata del 21 marzo al di là della vicinanza ai famigliari delle vittime e dell’impegno per realizzare gli ideali chi è morto per la libertà del nostro Paese. È un richiamo alla corresponsabilità, all’essere cittadini più attivi, più consapevoli, più attenti al bene comune. Se i diritti oggi sono deboli, non è solo colpa di una politica e un’economia autoreferenziali. È colpa anche nostra. I diritti sono responsabilità, azioni coerenti e concrete. Non possiamo più fermarci alle parole, perché un diritto solo proclamato ferisce le speranze di giustizia non meno di un diritto negato.