Grande successo per il Don Giovanni del Macerata Opera Festival, una scommessa rischiosissima vinta dall’Associazione Arena Sferisterio, che nel baratro della pandemia apertosi la scorsa primavera non solo ha confermato la sua stagione, ma ha deciso di allestire scenicamente il capolavoro di Wolfgang Amadeus Mozart. Un successo che si offre quasi come un «miracolo», se prova al mondo che lo spettacolo dal vivo non è morto, che il suo pubblico era lì ad attenderne la rinascita, e se l’allestimento di Davide Livermore, che ha debuttato un anno fa al teatro romano di Orange, resta immune da ogni goffaggine nel risolvere il tema della sicurezza di cantanti e mimi (bastano alcuni veli sui capi delle prede di Don Giovanni e pochi aggiustamenti coreografici), seducente e spavaldo come la gran parte delle regie di Livermore, qui aiutato dallo strepitoso video mapping di D-Wok, che veste l’implacabile muro dello Sferisterio.

IL «MIRACOLO» di farci dimenticare il tempo tragico della pandemia, che, come sempre il tempo della sopravvivenza, è stato lunghissimo e fulmineo insieme, pieno di ansie e vuoto di desideri, deriva anche dalla tempra dell’opera messa in scena, che, seppur scelta in tempi non sospetti, si staglia sul nostro passato prossimo come una sfida lanciata al tempo. Don Giovanni, infatti, è un’opera che abolisce il tempo. Primo, perché arriva a noi attraversando intatta i quasi due secoli e mezzo trascorsi dal suo debutto, senza avere perso alcun tratto della sua irresistibilità divertente e ombrosa. Secondo, perché il suo protagonista vive in una lotta senza quartiere contro il tempo: Don Giovanni corre dietro a un desiderio di seduzione che non si esaurisce mai, devoto a un principio di piacere che, mentre celebra compulsivamente le gioie offerte dalla vita, risponde, ce lo dice Sigmund Freud, anche a un’indomabile pulsione di morte. La soddisfazione immediata del desiderio porta a uno stato simile a quello della quiete inorganica, la cosiddetta «piccola morte». Così la corsa erotica di Don Giovanni non è che un esorcismo della morte a ogni passo, un’affermazione incessante della libertà che ispira sopra ogni altra cosa la vita del libertino. Una libertà che, quando non è candidamente adombrata (in I,10 dice: «non vedete / ch’io voglio divertirmi»), viene apertamente proclamata (in I,22, durante la festa in maschera, grida: «Viva la libertà»). Terzo, e ultimo, perché, alle spalle dei personaggi sopravvissuti alla morte di Don Giovanni, tutti insieme sentenzianti che «de’ perfidi la morte / alla vita è sempre ugual!», Mozart e il suo librettista Lorenzo Da Ponte sorridenti sembrano dirci che, se perfidi sono tutti gli esseri viventi in quanto esseri desideranti, la vita accoglie la loro morte con indifferenza, come un passaggio non più degno di nota di altri, pronta a rigenerarsi in una dimensione di eterno ritorno reso possibile proprio dal desiderio.

PERCIÒ la soluzione di Livermore di far morire e poi morire e poi ancora morire e allo stesso tempo vivere e desiderare Don Giovanni, mette in bella vista le viscere dell’opera e conquista il pubblico, grazie anche alla direzione salda di Francesco Lanzillotta, che non si lascia sopraffare dai tempi imposti dall’enormità del palcoscenico, e da un cast giovane e strepitoso trascinato da Mattia Olivieri, libertino da manuale, e da Tommaso Barea, servo complice e smaliziato, affiancati dalla intensa Karen Gardeazabal (Anna), dalla veemente Valentina Mastrangelo (Elvira), dalla vezzosa Lavinia Bini (Zerlina), dal diafano Giovanni Sala (Ottavio) e dal giocoso Davide Giangregorio (Masetto).