Non mancano il rosso e l’oro all’interno della sala circolare del Teatr Wielki, il «grande teatro» di Poznan dalla imponente facciata neoclassica ricalcata sulle forme architettoniche dello stile ionico, con le colonne sormontate dai capitelli a volute e il frontone triangolare che regge un cavallo alato, insomma un vero e proprio tempio della musica. Perché siamo qui, in questo angolo occidentale della Polonia che nei palazzi reca ancora le tracce di un passato prussiano, per assistere al Don Giovanni di Mozart. Come dire un mito fondativo della modernità, il burlador di Siviglia che dal prototipo di Tirso de Molina arriva a Molière e Mozart e da lì a noi, passando attraverso decine di rielaborazioni, e insieme un vertice della cultura occidentale, la perfezione ininterrotta della musica ma prestate orecchio anche al libretto di Lorenzo Da Ponte, sembra scritto oggi. E questa classicità, questa tradizione qualche problema sempre lo pone, se non si vuol ridurre il melodramma alla vocalità di questo o quella cantante.

La giovane direttrice del teatro Renata Borowska-Juszczynska, in carica da quattro anni, ha scelto di dare un’impronta innovativa al lavoro di un ensemble che pure si mostra solido, sotto la direzione musicale di Gabriel Chmura: un gruppo stabile di solisti di ottimo livello; una programmazione fitta, che non lascia momenti morti. Ecco così la regia di Pippo Delbono, alla seconda prova in campo operistico dopo la Cavalleria rusticana dell’anno scorso al San Carlo di Napoli, dove tornerà in scena la prossima estate. Sua è la voce che ascoltiamo.

Dice Delbono della morte di Mozart, il funerale di terza classe e la sepoltura in una fossa comune di cui si sono perse le coordinate, insieme a tutti gli altri morti in quel giorno d’inverno del 1791. Dice di un attore della sua compagnia, per quarant’anni rinchiuso in un manicomio, che somiglia un po’ a Mozart se fosse diventato vecchio, e come tale lo vedremo poi in un ritratto. Quando sulle note dell’ouverture si solleva il sipario, rivelando una scena chiusa da uniformi pareti grigie e del tutto priva di arredi, l’immagine che ci offre è subito emozionante. Una fila di corpi distesi fianco a fianco si allunga lungo l’asse del palcoscenico. Quasi a dare concretezza visiva all’immagine di sepoltura collettiva appena evocata. Ma il cupo andante dell’ouverture si sposta presto verso un allegro festoso che dà ragione della definizione di «dramma giocoso« che si accompagna all’opera. E allora anche quei corpi si sollevano, rivelano la loro giovinezza, si ritrovano a dar vita sul fondo della scena a una giocosa danza circolare, preludio all’inizio dell’azione.

Voglio fare il gentiluomo, dice l’aria con cui si presenta Leporello. E infatti indossa un settecentesco abito bianco del tutto uguale a quello del suo padrone. E questo loro abito pur restando sempre uguale cambierà di colore col procedere dello spettacolo, diventando rosa e poi rosso fuoco. E anche gli altri protagonisti dell’opera vestono costumi d’epoca più o meno fastosi che non servono a distinguere le classi sociali di appartenenza ma a connotarli come figure teatrali. Il principio cui si è attenuta la regia di Delbono è quello della pura teatralità, piuttosto che l’adagiarsi sulla struttura narrativa. Non cede alla tentazione di modernizzare l’opera, cosa che risulta sempre penosa a vedersi e non porta fuori dai confini della narrazione, non è così che Don Giovanni può diventare nostro contemporaneo. Lascia i cantanti liberi di muoversi in proscenio ma ne asciuga i gesti dai cascami dell’interpretazione. Tutto in questa stanza grigia è teatro.

Don Giovanni recita, cioè fa l’attore. Senza posa. Si traveste, simula passioni che rifiuta, impone la recitazione anche al suo servile alter ego. E recitando denuncia tanto il privilegio aristocratico di cui fa la parodia, quanto l’opportunismo della futura borghesia. Ma questo suo recitare lo condanna all’azione, a un instancabile esercizio di seduzione sempre interrotto dall’irrompere vendicativo di Donna Anna e Don Ottavio o dal vero e proprio mobbing cui lo sottopone l’isterica Donna Elvira. È tutto amore, protesta. Ma chi è capace di comprendere che quel suo catalogo è finzione, incorniciata appunto dal panneggio di un altro sipario, mentre nel profondo si agita l’ansia di essere amato piuttosto che quella del possesso? Che altro è questa tensione verso una totalità che è impossibile soddisfare?

L’unica capace di tenergli testa è Zerlina, se si toglie al personaggio quell’ingenuità maliziosa che proprio non le appartiene. Vorrei e non vorrei, canta. E non è certo la tormentata indecisione di una figura debole e facilmente manipolabile. È al contrario la rivendicazione della propria autonomia, per certi versi può ricordare la quasi coetanea locandiera Mirandolina che pure si trova di fronte allo stesso bivio (fatto uguale il bel Masetto al Fabrizio goldoniano, in quelle nozze così poco entusiasmanti), semmai con un po’ di consapevolezza in più del suo ruolo, dopo tutto la rivoluzione francese è alle porte, mica per nulla Leporello afferma di non volere più servir. E c’è allora quasi la prefigurazione di un dopo ormai definitivamente borghese in quell’andare e venire di divani, tutti diversi e tuttavia anche inevitabilmente uguali, portati dentro e fuori da un gruppo di inservienti impassibili a quel che avviene sulla scena, loro sì espressione di un mondo del lavoro segnato da rapporti di classe. Vi ritroveremo seduti da ultimo tutti i comprimari, fissati in un ritratto di famiglia ormai definitivamente borghese, a bersi un caffè davanti al corpo abbattuto del protagonista (o forse è la cioccolata che Don Giovanni offriva per le nozze), giacché gli artefici hanno scelto di restare fedeli alla prima versione dell’opera, quella praghese del 1787. Con il doppio finale così frequente nelle creazioni di Delbono, ma che questa volta è di Mozart.

Prima si era compiuto lo slittamento verso la contemporaneità, siglato dall’abbandono del costume d’epoca. Siamo entrati in un mondo settecentesco e all’uscita ci ritroviamo inevitabilmente nel presente. A Don Giovanni non resta che togliersi anche la parrucca prima di affrontare l’uomo di pietra, la statua del Commendatore che aveva derisoriamente invitato a cena, emblema di una condanna morale che appartiene solo alle convenzioni. No, ch’io non mi pento, è l’ultimo suo grido di ribellione. Confesso che ho vissuto, avrebbe potuto dire con le parole di un altro poeta. Come dargli torto, di fronte al corale irrompere di quei giovani vestiti di nero e rosso al momento degli applausi finali.