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Don Chisciotte, un’ossessione in arazzi

Don Chisciotte, un’ossessione in arazziAntonio Dominici, "Don Chisciotte accolto da Don Antonio sulla spiaggia di Barcellona", part., cartone preparatorio, 1773, Napoli, Palazzo Reale

A Napoli, Palazzo Reale, "Don Chisciotte tra Napoli, Caserta e il Quirinale: i cartoni e gli arazzi" La fortuna di Cervantes, e dei panni, nelle corti del Settecento: il superbo ciclo per la Reggia di Caserta e i relativi cartoni, esposti tutti insieme (autori: Bonito "in primis", Torre, Dominici)

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 12 giugno 2022

Nel settembre del 1541 Carlo V cavalcò per le vie di Lucca tenendo alla sua destra Ercole II d’Este e alla sua sinistra Cosimo I de’ Medici. Forte di quel piccolo ma importante precedente, l’ambasciatore ferrarese poco dopo reclamò, appunto, la precedenza su quello fiorentino nella cappella pontificia in occasione delle cerimonie natalizie; ne nacque una lunga contesa. Poco prima lo stesso Ercole II e Federico II Gonzaga avevano riavviato le manifatture di arazzi presso le proprie corti, nel 1536 e nel 1538-’39; Cosimo I de’ Medici li imitò nel 1545 proprio perché vantare una propria produzione di arazzi costituiva un eccezionale attributo di nobiltà, e gli Este si vantavano di averne avuta una attiva a Ferrara già nel 1436. Fu poi solamente proprio la manifattura fiorentina, avviata, come le altre due, da specialisti provenienti dalle Fiandre, ad avere vita lunga.
Da quanto detto si comprende bene come gli arazzi fossero allora (e sarebbero rimasti) tra gli oggetti d’arte più ricercati e apprezzati, spesso più dei dipinti. Nel corso dei secoli, in Italia, ci si dovette sempre, o quasi, rivolgere a Bruxelles, e poi a Parigi, per la traduzione in arazzo dei cartoni eseguiti dai migliori pittori italiani, con il caso più celebre rappresentato dagli Atti degli Apostoli di Raffaello destinati alla Cappella Sistina, tessuti da Pieter van Aelst (i panni sono oggi ai Musei Vaticani, i cartoni al Victoria and Albert Museum di Londra). Nell’età d’oro del mecenatismo romano di epoca barocca, ovvero al tempo del pontificato Barberini, il cardinale Francesco impiantò per la prima volta una manifattura nell’Urbe, ma anche quella scomparve con il suo creatore, nel 1679. All’inizio del secolo successivo il sogno di avere un’arazzeria romana prese di nuovo forma, con l’obiettivo di fare di quell’attività una lucrosa industria. L’impresa fu avviata ne 1710, e già nel 1735 il cardinale Pietro Ottoboni teneva un’informale gara per attestare la raggiunta maturità della manifattura romana: «spiegò alcuni arazzi nuovi, uno tessuto in Fiandra, altro in Francia ed altro in Roma a San Michele a Ripa ed è stato giudicato quello di Ripa essere il migliore». Ma le cose non stavano affatto così, e i Gobelins di Parigi non si sentivano certo minacciati da un possibile confronto con i colleghi romani.
Il primato dei Francesi, nel Settecento, su qualunque possibile contendente si fosse presentato sulla scena italiana è confermato ora dalla bella e importante mostra al Palazzo Reale di Napoli dal titolo Don Chisciotte tra Napoli, Caserta e il Quirinale: i cartoni e gli arazzi (fino al 6 settembre; catalogo edizioni Paparo, pp. 227, e 35,00). Per la prima volta, su iniziativa del nuovo direttore del Palazzo Reale, Mario Epifani, sono presentati al pubblico tutti i 38 cartoni superstiti della grandiosa serie di arazzi con storie di don Chisciotte che venne realizzata tra il 1758 e il 1779 dalla manifattura nata a Napoli nel 1737 sulle ceneri di quella fiorentina, la quale, sia detto per inciso, nel 1622 aveva rifornito proprio la corte del Viceregno con arazzi, raffiguranti Storie di santa Caterina, commissionati per una volta in Italia. Il maestro Domenico Del Rosso (un arazziere specializzato, finalmente italiano di nascita) venne infatti invitato da Carlo III di Borbone a trasferirsi alla propria corte all’indomani della morte dell’ultimo granduca Medici, Gian Gastone.
I cartoni nel Settecento erano ormai da tempo divenuti dei dipinti a olio in tutto e per tutto identici a tele pensate per essere esposte al pubblico, e quelli con le Storie di don Chisciotte appartengono al Palazzo Reale, ma non erano mai stati esposti tutti insieme, e per l’occasione sono stati restaurati. Oltre ad altri preziosi pezzi, come alcune edizioni illustrate del Sei e Settecento del romanzo di Cervantes, alla mostra sono presentati cinque degli arazzi corrispondenti, prestati dal Palazzo del Quirinale di Roma, al quale appartengono oggi anche i due panni di natura squisitamente decorativa (una sovrapporta e una quinta non figurata) che, nelle sale della mostra, aiutano il visitatore a ricostruire mentalmente quello che doveva essere l’aspetto finale dei quattro gabinetti del re e della regina nel Palazzo Reale di Caserta, per i quali era stata pensata quella grandiosa macchina figurativa. Da Capodimonte, infine, arriva un arazzo dei Gobelins su cartone di Charles-Antoine Coypel (1731-’35 circa), appartenente alla serie commissionata originariamente dal duca d’Antin, passata poi nelle mani di Luigi XV (che ne portò a termine la realizzazione), e da questi donata all’ambasciatore spagnolo a Parigi, il principe di Campofiorito, dal quale infine l’acquistò Carlo III nel 1751, che sei anni dopo avrebbe avviato un’estensione della serie con gli arazzi napoletani oggetto della mostra.
La storia quasi avventurosa della realizzazione di un complesso così imponente di panni non è meno affascinante di quella dei cicli forse più noti della storia dell’arazzeria rinascimentale, e del tutto appropriato sembra quindi il titolo del saggio di Epifani che apre il catalogo della mostra: Don Chisciotte e l’arazzeria: due ossessioni dell’Europa delle corti. Il confronto fra i panni tessuti a Napoli sotto la direzione del romano Pietro Duranti, succeduto a Del Rosso, e quello dei Gobelins permette di riconfermare quanto già detto circa l’eccellenza tecnica della manifattura francese, ma al di là dell’imperdibile opportunità di vedere i pezzi provenienti dal Quirinale accanto ai loro modelli, l’interesse principale della mostra (che ha visto il coinvolgimento di tutta una serie di specialisti di Cervantes, delle regge borboniche e dell’arazzeria napoletana, a partire da Alessandra Cosmi) è rappresentato dal panorama variegato e sorprendente della pittura napoletana del secondo Settecento offerto dai cartoni, che il visitatore potrà ammirare non solo nelle tre sale del nuovo spazio espositivo che lo stesso Epifani ha inaugurato lo scorso anno con un’altra bella mostra molto ben mirata (Dante a Palazzo Reale, incentrata su dipinti ottocenteschi napoletani ispirati alla Divina Commedia), ma anche in una delle sale del percorso di visita del Palazzo Reale.
Con la morte di Solimena nel 1747 alla scuola napoletana era rimasto un solo grandissimo rappresentante di statura europea, Francesco De Mura, che pure lavorò per l’arazzeria dei Borbone, ma che per le Storie di don Chisciotte si limitò a stimare le tele di pittori oggi ancora in attesa di essere riscoperti o almeno studiati, quali Benedetto Torre o Antonio Dominici. Il carattere aneddotico, e spesso scopertamente comico degli episodi raffigurati – per l’analisi dei quali è stato fondamentale l’apporto di una specialista di Cervantes, la co-curatrice Encarnación Sánchez García –, esalta però il talento non eccelso di quei maestri; fin quasi a evocare i celebri cartoni di Goya dipinti per l’arazzeria madrilena tra il 1775 e il 1792 (il Sancio fatto saltare su un lenzuolo di Giovan Battista Rossi fa subito tornare in mente Il fantoccio di Goya).
Il vero protagonista della monumentale commissione napoletana fu comunque Giuseppe Bonito, che per la prima serie di tredici panni (tessuti tra il 1758 e il 1766) fu l’unico autore dei cartoni, riservandosi un ruolo direttivo per la seconda, quella realizzata tra 1766 e 1779. Proprio a Bonito era attribuito ad esempio il Don Chisciotte decide di tornare alla cavalleria, sul quale è riemersa la firma di Torre. Se quest’ultimo, pittore comunque non dotatissimo, appose il proprio nome su ognuno dei dieci cartoni affidatigli, l’altrettanto sconosciuto Dominici, palermitano, arrivò giustamente a inserire il proprio autoritratto nel bellissimo Don Chisciotte accolto sulla spiaggia di Barcellona, di straordinaria modernità nel brano paesaggistico a sinistra; e con un gusto del racconto in costume, romanzesco, che sembra già ottocentesco, già trobadour.

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