Non si ferma il domino disgregante innescato dal Brexit, soprattutto ora che Nicola Sturgeon ha finalmente annunciato di voler rimettere in moto la macchina di un nuovo referendum sull’indipendenza scozzese, il secondo dopo quello del 2014. Da tenersi, magari, tra l’autunno del 2018 e la primavera del 2019.

L’ANNUNCIO, che per quanto atteso non è meno dirompente, arriva a meno di quarantott’ore dall’altrettanto anticipata – anche se non ancora ufficialmente confermata – applicazione da parte di Theresa May dell’articolo 50 del trattato di Lisbona, che fissa l’inizio dei due anni di negoziati entro cui l’uscita va/andrebbe completata.

Sturgeon ha anche lamentato la riluttanza di Theresa May a fare determinate concessioni sulla libertà di movimento di cittadini europei in Uk pur di assicurare al paese intero un posto nel mercato unico.

Faceva parte del pacchetto rischi dell’opzione uscita: votando per lasciare quella europea, il Regno unito avrebbe messo in pericolo un’altra unione: la propria.

E STURGEON lo aveva detto già minuti dopo l’esito choc del referendum sulla permanenza del paese nell’Ue lo scorso giugno: in caso di Brexit, la Scozia – che aveva votato per il 62% a favore del remain – si sarebbe concessa un altro referendum sull’indipendenza da Londra.

E durante la conferenza stampa di ieri a Edimburgo, Sturgeon ha annunciato l’intenzione di richiedere i poteri necessari al parlamento scozzese per convocarlo, giacché questi poteri, che non fanno parte di quelli devoluti a Holyrood, spettano ancora a Westminster. A consentire l’«Indyref», nel 2014, era stato un accordo fra Londra e Edimburgo e la stessa cosa dovrebbe accadere adesso. Il problema è che Theresa May – che di disintegrazione del regno non vuole nemmeno sentir parlare – potrebbe rifiutare l’accordo, negando a Sturgeon il permesso di convocare il referendum.

LA PREMIER BRITANNICA ha duramente criticato la controparte scozzese, accusandola di speculare sull’uscita del paese intero dall’Ue per portare avanti l’agenda secessionista. Ma il prezzo politico di una simile fermezza sarebbe costoso assai per Downing Street.

In tal caso Holyrood potrebbe addirittura tirare dritto e votare direttamente per la consultazione popolare. Ciò porterebbe a un contenzioso legale fra le due capitali la cui complessità non farebbe comodo a nessuno. Per questo è nell’interessa comune che si pervenga ad un accordo prettamente politico. Ed è più probabile che May acconsenta controvoglia, pur insistendo sul posticipo della data referendaria a dopo che si sia completato il negoziato su Brexit.

NEL 2014, GLI SCOZZESI avevano detto un sostanzioso no a lasciare l’unione, 55 contro il 45%. Ma per la leader di un partito al governo, lo Scottish National Party, la cui unica ragione di vita politica è il nazionalismo indipendentista, riprovarci era solo una questione di tempo.

Soprattutto dopo che un’Inghilterra a maggioranza tory aveva imposto a scozzesi e nordirlandesi di voltare le spalle all’Europa nonostante avessero votato per il contrario.

ORA L’OSTINAZIONE di May, che punta dritta verso il muro del cosiddetto «hard Brexit», il ritrovarsi cioè fuori dal mercato unico in questione e in mezzo alla cacofonia di trattati commerciali ad hoc previsti dalla World Trade Organisation, è per il Snp un’altra occasione. Stavolta davvero irripetibile. Il meccanismo di avvicinamento del nuovo appuntamento referendario sull’indipendenza scozzese denominato «Indyref2» è dunque di nuovo in moto.

Ma in questo suo passaggio del Rubicone, Sturgeon ha due problemi: il fatto che i sondaggi diano i pro secessione al 50%: non eclatante, ma in risalita rispetto al 45 di qualche mese fa (il calo del prezzo del petrolio di cui la Scozia è produttrice ha ben mitigato gli entusiasmi autonomistici); e poi, naturalmente, il fatto che i suoi slanci verso una Scozia a sé tante membro dell’Ue non incontrino l’entusiasmo di Bruxelles che, a sua volta alle prese con onde disgregatrici, non vuole istigare ulteriormente la frammentazione.

Tuttavia Sturgeon può contare sulla debolezza elettorale del Labour a guida Corbyn, che rischia di murare Theresa May viva dentro Downing Street: prospettiva quanto meno frustrante per le aspirazioni indipendentistiche del Snp.