«Dominique sta ancora riposando». Nell’appartamento palermitano che ospita Dominique Sanda, madrina dell’ultima edizione del Sicilia Queer Film Fest, squarci primaverili di palazzi panormiti filtrano dalle tende e nell’attesa del risveglio, tutto appare come un set magico, pre-esistente, perfettamente in grado di materializzare lo spirito di questa donna mentre, rubando qualche parola a Pessoa, la si immagina mollemente adagiata fra «quei tremolii tristi di una stranezza posticcia che incorporano in parole inattese un’anima ansiosa e funambola». Ed è davvero su quel crinale di splendore e decadenza, di sussurri e grida, che Dominique Sanda ha sempre volteggiato nei suoi movimenti, nelle sue donne dolcemente ambigue, violente, braccate mentre cinema e vita sembrano essersi sempre intrecciati in passi di danza indispensabili per l’equilibrio della sua anima. Dopo qualche minuto l’apparizione, annunciata dalla sua voce, non più francese, che dipinge un’italiano senza esitazioni di sfumature spagnole assorbite in questi ultimi anni, tra Buenos Aires e l’Urugay dove si è trasferita, agli inizi del 2000 «Per amore, non solo di mio marito, non solo in senso romantico, perché tutta la vita è fatta per essere amata»
Oltre all’eleganza e alla bellezza enigmatica, la sua «essenza» di attrice, specialmente negli anni ’70, si è spesso dipinta di colori fortemente politici all’interno di un cinema liberissimo e «impensabile» ai giorni nostri per coraggio e impegno. Che ricordo ha di quell’epoca? Condivideva le battaglie che portavano avanti registi a lei molto vicini come Bernardo Bertolucci e Liliana Cavani?
Purtroppo, o per fortuna, in quegli anni io sono stata semplicemente un’interprete di questi registi. Loro mi hanno scelta per dei ruoli, per delle donne che simboleggiavano qualcosa ma in quel momento ero meno «politica» di oggi perché in gioventù non mi interessava. La mia intelligenza non era intellettuale, vivevo di intuizioni anche se dentro di me avevo ovviamente una politica «mia», una ricerca personale che includeva il desiderio di comprendere meglio per non morire idiota. Mi piaceva sentire che questi registi dalla grande personalità scegliessero me, per star loro accanto e per me sono stati una scuola per capire meglio il mondo in cui vivevo. Volevo comprendere io per prima, a partire dal mio lavoro di attrice, avevo bisogno di decidere per me e ho aspettato a cogliere la mia battaglia personale. Bertolucci per esempio amava molto questa mia libertà dall’ideologia perché potevo indossare molte cose, essere un campo libero, una persona da «progettare». Avevo bisogno di apprendere perché lasciai la scuola a 13 anni, dovevo vivere e conoscere me stessa.
Dopo tanti anni di «studio» introspettivo, quando ha sentito questa effetiva maturazione? Il cambiamento continentale può aver influito?
Assolutamente si perché, in questo momento della mia vita, sono molto interessata a tutto quello che accade nel mondo anche grazie a mio marito, Nicolae Cutzarida che ha sofferto molto a causa della politica. È nato in Romania ma scappò molto presto con i genitori in Argentina e ora insegna Filosofia Pratica all’Università Di Buenos Aires. Lui ha una visione molto profonda proprio per aver vissuto il socialismo reale mentre oggi ha sempre un punto di vista molto interessante sul mondo contemporaneo e grazie a lui ho imparato prima a navigare, poi a indagare, nelle acque profonde.
Lei è stata uno dei corpi «simbolo» di un decennio, anche cinematografico, un corpo all’interno del quale la sessualità diventava un luogo di lotta contro il Potere e la Legge. Come ha affrontato un momento simile?
Ho iniziato a fare cinema in un periodo dove ti sentivi veramente parte di questa liberazione. Ho sempre pensato al nudo come qualcosa di meraviglioso e l’ho mostrato nella maniera più sottile possibile ma purtroppo credo che oggi si sia persa la consapevolezza della bellezza, anche interiore, del nostro corpo. Ripensando alla mia vita pre-cinematografica, ho dovuto combattere contro il moralismo e i tabù della mia famiglia e a volte ho dovuto anche combattere con alcuni registi. Certi nudi infatti non mi sono piaciuti non per la cosa in sé ma per la maniera in cui mi hanno chiesto di interpretare certe scene. Ne Il giardino dei Finzi Contini ad esempio c’è una la scena dove il mio personaggio, Micol, sta in quella specie di capanna con Fabio Testi e vede arrivare Lino Capolicchio. Micol accende la luce per «farci» vedere che ha fatto l’amore ed è proprio questa scena che non ho mai amato perché la Micol di Bassani non l’avrebbe mai fatto. Nel libro è tutta un’altra cosa, rimane nell’ambiguità e mi piace molto perché uno può pensare quello che vuole. Nel cinema contemporaneo non sarei mai stata attrice perché la pornografia del momento mi spaventa.
Se non sbaglio, per restare in tema di corpi e battaglie, «Ultimo tango a Parigi» era stato scritto e pensato per lei…
Si, per me e per Jean-Louis Trintignant e sono stata sempre convinta che sarebbe stato un film completamente diverso. La sceneggiatura non è sempre, specialmente con Bernardo, quello che poi si vede nel film. Noi attori non siamo idioti, viviamo in prima persona le situazioni e soffriamo e godiamo allo stesso tempo. Non feci il film perché avevo da poco partorito ma se l’avessi fatto, non sarei morta di tristezza come è successo a Maria Schneider perché era più fragile. Bernardo mi ha dato una libertà, mi ha proposto personaggi che da sola non sarei riuscita a fare, anche se poi, come in questo caso, alla fine non ce l’ho fatta.
È curioso come all’apice della sua carriera, penso alla Palma d’Oro a Cannes nel 1976 per «L’eredità Ferramonti» di Bolognini, lei abbia fatto successivamente delle scelte ancora più anticonformiste: film «estremi» come «La Navire Night» di Duras, uno dei primissimi film di Benoit Jacquot «Les Ailes de la colombe» ma soprattutto film che geograficamente l’hanno portata in ogni luogo del mondo per poi approdare nel Sud America dove ora vive…
Non ricordo l’anno preciso che vidi per la prima volta l’Argentina ma mi ero ripromessa di tornare e fare dei film. Il primo è stato Yo, la peor de todas di Maria Luisa Bemberg poi Garage Olimpo con Marco Bechis e nel mezzo un film con Pino Solanas, Il viaggio, anche se ho dei ricordi non piacevoli di quell’esperienza. Accettai anche perché alcune riprese dovevano essere effettuate a Capo Horn, dove mio nonno è passato sette volte con la sua barca, ma mi sono sentita usata da Pino. Mi voleva per motivi di co-produzione con la Francia e il mio ruolo è stato drasticamente ridotto, anche per questo non amo inserire quel titolo nella mia filmografia.
Da qualche anno lavora saltuariamente per il cinema. Che spettatrice è? Cosa ama guardare sul grande schermo?
Vedo pochi film anche perché vivo in un posto dove l’unico cinema è a circa 40 chilometri da casa. Una volta all’anno però c’è un piccolo festival di cinema europeo dove ho avuto l’immensa gioia di vedere l’ultimo film di Philippe Garrel, L’Ombres de femmes, e l’ho amato immensamente. Non vedevo un suo film da molti anni e lo trovo sempre straordinariamente fresco e poetico.