Laurent Pêcheux, “Ritratto della marchesa Margherita Sparapani Gentili Boccapaduli”, 1777, Roma, Palazzo braschi, Museo di Roma

 

Quando venni a vivere a Roma nel 1971 toccò alla mia vecchia amica Bianca Riccio farmi conoscere Domietta del Drago nel suo palazzo alle Quattro Fontane, a suo tempo appartenuto agli Albani e dove aveva lavorato come bibliotecario uno degli uomini più famosi del Settecento, Winckelmann. Tutto ciò serve ad indicarci che genere di persona fosse Domietta.
L’avevo incontrata più che conosciuta a Firenze in un altro mondo, quello della Contessa Hortense Serristori, grande amica di Berenson, per metà spagnola e cubana, e questo era il solo legame letterario, per modo di dire, tra di noi. Di Domietta avevo anche sentito parlare più volte da Alberto Arbasino, che avevo conosciuto in casa dei Longhi, e naturalmente avevo visto le sue fotografie su molte riviste e giornali, soprattutto all’epoca in cui aveva aiutato Luchino Visconti (che invece non conoscevo affatto) per l’arredamento degli interni de Il Gattopardo. Allora Domietta aveva addirittura un altro nome, anzi quello vero, Laudomia, e un altro cognome, Hercolani, che era quello di suo marito, un principe bolognese.
Eravamo ormai ai primi mesi del ’72, un tardo pomeriggio quasi primaverile vicino a Santa Maria della Vittoria con l’Estasi di Santa Teresa del Bernini e al Palazzo del Quirinale, quasi cinquanta anni fa quando Roma era ancora una città calma, senza piombo né violenza. Sua Eccellenza (come venivano chiamati dai camerieri in livrea i principi romani) ci aspettava accanto ad una delle terrazze del palazzo. Non era bella, era bellissima e una luce bionda sembrava indorare i suoi lineamenti decisi come si addice alla figura araldica che era. Il tono era come doveva essere, inimitabile, lo si indovinava quasi timido, nonostante l’uso di mondo attento a non ostacolare il fluire delle parole.
Diventammo col tempo amici, forse non intimi, ma dandoci del tu e non con tutti si faceva così allora. Gli argomenti non mancavano ad una donna colta, apparentemente sempre a suo agio. Ma devo ammettere che questo suo aspetto non doveva renderle la vita del tutto comoda, quasi fosse la protagonista di un racconto di fate a cui non è sempre facile apparire ogni volta come la prima di ogni classe e di ogni salotto. La sua natura era generosa, forse spontanea, ma non semplice, e persino l’intelligenza, sottile e ironica, rendeva non ovvio il rapporto con persone per le quali restava irraggiungibile loro malgrado. Ho sentito dire a più di una signora, quasi del suo mondo, che il problema di Domietta era leggere troppi libri.
Con gli anni divenne silenziosa, poche parole forse bastavano, ma non per questo erano sempre alla portata di tutti, non per sue mancanze, ma per difetto della maggior parte delle persone che la circondavano. Comunque in ciascuno dei molti pranzi in cui mi trovai a sederle vicino negli ultimi vent’anni, Domietta riusciva a dire forse una dozzina di frasi. Ovviamente sapeva spiegarsi perfettamente e alla fine della serata le sue ultime parole facevano intendere come avesse seguito perfettamente la conversazione delle ore precedenti. Come molte sue antenate del Settecento aveva, credo, un solo nemico, l’ennuie, la noia, e mi sembrava che era l’apatia degli altri a inquietare la sua anima: non era la noia degli altri, ma il rovello del suo cuore.
Una delle prime volte che andai a trovarla le chiesi di farmi vedere un suo dipinto di famiglia, il ritratto della Marchesa Gentili Boccapaduli, opera del francese Laurent Pêcheux, di duecent’anni prima, del 1777. Me lo aveva suggerito un amico comune, il famoso professore di inglese che Domietta, come me, amava molto, nonostante l’oscura aura che lo circondava. Tanto mi piacque quel ritratto eccezionale che le chiesi di riprodurlo come copertina di un mio libro del 1984, Il Tempio del Gusto. Si trattava di un dono fatto ad un suo antenato dalla Boccapaduli stessa della quale i suoi erano eredi. Quel dipinto è adesso proprietà del Museo di Roma, messo a disposizione dagli Amici dei musei cui è pervenuto per lascito testamentario della principessa del Drago.
D’altra parte, il palazzo in cui Domietta nacque e morì era stato acquistato nel 1878 da un personaggio certamente fuori dal comune, la cosiddetta Reina gobernadora, la principessa napoletana Maria Cristina di Borbone, figlia di Francesco I Re di Napoli, sposa e poi vedova del suo cugino spagnolo Ferdinando VII. Subito dopo la morte del Re, Maria Cristina divenne Reggente del trono di Spagna ereditato da sua figlia Isabella II. Tre mesi dopo la morte di Ferdinando VII Maria Cristina sposò un sergente della guardia reale, Augustín Fernández Muñoz, il quale ebbe nel contempo il ducato di Riánsares e il Toson d’Oro. La primogenita di questo secondo matrimonio, Maria Milagros, andò in sposa a Filippo Massimiliano del Drago, Principe di Mazzano e Antuni ed erede di molte ricchezze appartenenti anche ai Gentili Boccapaduli del ritratto di cui si è parlato. Ogni fatto che riguardava Domietta aveva sempre un che di irreale.