Il titolo originale L’Economie du couple rende con più precisione il senso del film di Joachim Lafosse, che in sala arriva invece come Dopo l’amore. In quell’accostamento tra «economia» e «coppia» infatti emerge con chiarezza l’aspetto contrattuale del matrimonio, i soldi certamente e tutto ciò che vi ruota intorno, ma anche le abitudini, i rituali, le dinamiche che governano la vita comune, che determinano ruoli, zone di indipendenza, obblighi reciproci, ciò che si può sopportare e quanto non si dovrebbe mai chiedere.

 
Marie (Bérénice Bejo) e Boris (Cédric Kahn) un tempo forse si sono amati, anzi senz’altro visto che sono stati insieme quindici anni, ma di quell’amore qui non conosciamo alcun flashback di nostalgia. Li incontriamo che si detestano: distanti, esacerbati, lei che rivendica apertamente il suo fastidio e non sopporta nemmeno come l’uomo cammina, lui che gioca a nascondersi in punte di sgradevolezze improvvise, un po’ provocandola, un po’ con l’autocommiserazione. Di chi sia «la colpa» – sempre che serva a qualcosa – non sappiamo. A vederli «dall’esterno» sono tutti e due piuttosto odiosi, lei che rimprovera a lui persino di mangiare il formaggio delle bambine, lui che cerca di intrufolarsi in una cenetta di amici non invitato, entrambi che rovesciano sulle figliette gemelle di una decina di anni, tanta tensione da farle precipitare nell’isterismo disperato dei bambini pieni di paure, costretti alle liti dei genitori, pure a quelle cattive.

 
È che i due continuano a vivere sotto allo stesso (lussuoso) tetto e anzi la casa è divenuta il catalizzatore di tutte le loro battaglie.: lei l’ha pagata ma lui l’ha rifatta e quei lavori hanno dato un valore all’immobile che prima non aveva. Perciò invece del terzo offerto dalla moglie, il marito pretende la metà del suo valore. In effetti nell’«economia» della loro coppia i soldi sembrano piuttosto importanti, o almeno trascinare tutto il resto. La coppia stessa incarna questa visione marxista del sentimento: docente universitario lei, rampolla di una alta borghesia, operaio (non tanto) nei cantieri lui, figlio del proletariato. È la signora che ha sempre pagato i conti, che ha messo i soldi per la casa, un regalo del padre, che ha pagato il mutuo. Lui le grida che lei non sa nemmeno cosa significhi «avere difficoltà», non sapere se si riuscirà a mangiare rivendicando di essersi occupato delle spese di ogni giorno.

 
Lei però non sopporta di mantenerlo, di coprire i suoi rossi in banca, la gente che arriva a cui lui deve dei soldi; lui non sopporta il suo mondo, l’umiliazione davanti alle figlie sempre più infelici. Anche per loro «essere ricco» significa avere soldi. «Solo questo?» gli chiede il padre, e prova a dirgli che è avere tanti amici, avere letto molti libri.
«Non puoi desiderare la stessa persona tutta la vita, alla fine rimane l’amicizia, quella sì che dura sempre» chiosa la madre di lei (meravigliosa Marthe Keller) ma tra i due coniugi anche questa sembra sparita.

 
Il film di Lafosse è un dramma d’interni, siamo dentro la casa, siamo dentro alla coppia, siamo dentro a quel momento in cui nulla può accadere se non arrendersi al fatto che l’amore, o anche soltanto la possibilità di una relazione, sono finiti per sempre. E la scelta, stilistica appunto, di non uscire mai dall’elegante domicilio coniugale, di non varcare la soglia chiusa del giardino permette alla narrazione di assorbire il mondo esterno dentro allo spazio privato. La lotta di sentimenti diviene così lotta di classe, il capitale contro il lavoro tra le pareti domestiche, la politica nell’intimità, il senso precario di un presente in cui le recriminazioni sulle responsabilità familiari e su chi paga i conti finiscono per diventare un detonatore.

 
Lafosse non prende parte per uno o per l’altro dei personaggi e nemmeno offre appigli che «spieghino» tale disastro sentimentale. Dissemina indizi, un possibile tradimento forse, o l’accumulo di stanchezza lascia agli spettatori la libertà di scegliere il proprio punto di vista. Le ragioni si affidano ai corpi, al malessere che raccontano, a quel loro annaspare negli ambienti prima comuni, condivisi, come la loro vita, e adesso segmentati in infiniti check-point emotivi.
E pure lasciarsi andare non serve a nulla, una carezza diventa tagliente, un abbraccio soffoca e ferisce. Alla fine più che una «questione di cuore» è sempre e soltanto questione di soldi, di conti, di stime, di cifre, di regole stabilite. Sentimenti compresi.