Domestiche, badanti, cameriere, serve, tate, sguattere. Questi sono solo alcuni dei modi per nominare quello che, in modo non dissimile da quello sessuale, è, nel mondo, il mestiere più antico per le donne. Migranti, proletarie, indigene; donne che dalle periferie ogni mattina arrivano al centro di megalopoli per lavorare, o che vivono una vita nella stanza sul retro delle ville di lusso che puliscono durante il giorno.

Figure liminali fra mondi altrimenti separati, «inviate» dal margine dei quartieri popolari per conoscere e soddisfare i bisogni delle classi dominanti – in una dialettica fra potere e dipendenza – ma anche viste come traditrici, imbonite dal contatto con le gerarchie superiori.

Non a caso durante la Rivoluzione Francese ne furono giustiziate diverse sulla ghigliottina con le nobili per le quali lavoravano.

Figure che fanno parte della quotidianità di molti, entrate nell’immaginario collettivo attraverso rappresentazioni disparate – che vanno dalle figure luminose nei quadri di Vermeer alla caricaturale Mamy di Via col Vento – e che riflettono l’importanza degli assetti sociali nel determinare le caratteristiche di questo tipo di forza lavoro: non solo il genere e la classe, ma anche la razza, l’età, l’istruzione o l’appartenenza religiosa (o di casta in India), si intersecano nel descrivere le condizioni di vita e lavoro delle domestiche, a seconda del periodo e contesto.

Oggi in Europa è comune associare la figura della domestica a quella della donna straniera, principalmente impiegata per la cura di anziani e disabili, essa stessa «madre transnazionale» di figli lontani, con assenti o parziali diritti di cittadinanza. L’esperienza di queste lavoratrici interroga simultaneamente questioni di diseguaglianza di genere nella divisione del lavoro riproduttivo, l’assenza di servizi di welfare e di assistenza socio-sanitaria, e la chiusura delle frontiere Ue alle migrazioni per lavoro. Ossia i regimi di cura, migratori e di genere che convergono nel comporre questo scenario.

Tuttavia, a fronte di tale vulnerabilità sociale, quella delle domestiche è una figura che ha mostrato nel tempo anche grandi capacità di rivendicazione. A partire dal ‘700 inglese, testimonianze giurisprudenziali mostrano donne di campagna che si difendono strenuamente dall’accusa infamante di aver rubato nelle case signorili in cui lavorano. Negli Stati Uniti, associazioni di donne nere domestiche sono attive fin dagli anni ’30 del novecento; e nel Sudafrica post-apartheid la prima legge promulgata è, non a caso, quella sul lavoro domestico.
In Italia, la prima legge sul lavoro domestico è del 1958, e il primo contratto collettivo nazionale del 1974. Pur essendo molto avanzata per il tempo, tuttavia, la normativa italiana non si è evoluta significativamente negli anni successivi ed è tutt’ora lacunosa rispetto ai dettami della Convenzione ILO 189, ratificata dal governo italiano nel 2013, in particolare rispetto il diritto alla maternità. Tuttavia è importante interrogarsi sulle strategie di alleanza fra il movimento delle lavoratrici domestiche e altri movimenti.

Il caso più significativo è quello della possibile connessione con i movimenti femministi attorno alla questione della riproduzione sociale e della necessità di un maggiore riconoscimento del lavoro domestico, di cura e corporeo. Si tratta di una alleanza che, al di là della convergenza sul piano teorico, si è raramente concretizzata in forme di lotte comune. In questo senso è particolarmente interessante vedere quello che sta accadendo in seno al movimento «Non Una di Meno», all’interno del quale la questione dell’intersezionalità delle lotte fra donne di diversa origine, estrazione sociale, condizione economica, è uno dei temi più importanti per quanto difficile da rendere in una pratica condivisa.

Parlare di diritti delle lavoratrici domestiche, soprattutto quando si tratta di donne migranti, può essere invece il piano per una rivendicazione condivisa che va a toccare simultaneamente temi quali la cittadinanza, le migrazioni, il welfare in un’ottica femminista e antirazzista.

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Link:
Domestic workers speak: a global fight for rights and recognition, a cura di Giulia Garofalo Geymonat, Sabrina Marchetti, Penelope Krytsis e pubblicato sul sito di OpenDemocracy-Beyonf Trafficking and Slavery