Giorgio Vasari racconta che, «così fanciullo come era», anche in Domenico Beccafumi (1486-1549 o 1551) si mostrò quanto «per dono solo della natura si vide in Giotto», ossia l’eccezionale talento «di dovere riuscire ottimo pittore». Fatto in Siena il primo apprendistato, sul finire dell’anno 1511, Beccafumi si reca a Roma «a studiare le cose di Michelagnolo, di Raffaello e degl’altri eccellenti maestri».

Quando torna nel 1513 nella sua Siena era divenuto, scrive Vasari, «fiero nel disegnare, copioso nell’invenzioni e molto vago coloritore». I colori di Beccafumi. Il loro «molto dolce» congiungersi, e quel loro delicato svariare per leggera soffusione di luminosità. O il loro accendersi di repentine ed abbaglianti luci, d’improvviso accese a frangere l’intensità degli scuri e dei cupi.

Così come nel San Michele scaccia gli angeli ribelli conservato a Siena nella Chiesa di San Niccolò al Carmine, «dove sono muraglie che ardono, antri rovinati et un lago di fuoco (…) che pare che quell’opera maravigliosa, in quelle tenebre scure sia lumeggiata da quel foco». Colori smaglianti che vibrano d’una luce propria, tale, diresti, da illuminare ‘dall’interno’ la superficie dipinta nella sua interezza.

E la maestria, poi, di Beccafumi, nel concepire certi rispecchi cromatici e lucidi, come di maiolica che, ammirato, Vasari richiama allorché menziona la gran tavola eseguita nel 1528 dello Sposalizio mistico di Santa Caterina da Siena e santi: «dinanzi, sopra certe scale, San Piero e San Paolo, ne’ quali finse alcuni riverberi del color de’ panni nel lustro delle scale di marmo molto artifiziosi». Mi soffermo ad osservare la mirabile tavola ad olio (cm 237×222) della Annunciazione nella Chiesa di San Martino e Santa Vittoria a Sarteano, realizzata nel 1546.

La figura seduta della Vergine annunciata ha la consistenza di una pianta acquatica che sia mossa da leggeri spostamenti. Nei panneggi mostra una sua lucida epidermide, ricorda la ninfea quando s’apre ad estendersi sul fiore dell’acqua. Tratteggiata in vesti simi ad alghe che appena fluttuino mentre le vedi procedere dal verde spento che si adagia seguendo la forma delle gambe, per finire in un inchiostro che si espande a macchia.

Ecco, le si è formato ai piedi un drappo cupo che giunge a lambire lo scalino; questo spigolo retto delineato da Beccafumi a recingere la grande pala lungo il suo bordo inferiore. È investito, il gradino, da una luminosità arancione, così vicina a chi osserva. Un arancione caldo. Enfatizza, per contrasto, quell’espandersi cupo della stoffa nel lembo ondulato del suo orlo estremo. Fonte di inquietudine per chi osserva, questo primo piano d’un impiantito coperto, oscurato; meglio dire: macchiato da un liquido nero.

La Vergine indossa una leggera camicia rosata che pare il petalo d’una peonia posato ad avvolgerle il braccio ch’ella si porta al seno atteggiato a un gesto di ritrosia, quasi a nascondere un turbamento. E l’Angelo anche non scende verso di lei in volo. Piuttosto lo dici a galla, come sull’acqua avviene d’un fiore spampanato. Perché i colori delle vesti sono i medesimi nell’Angelo e nella Vergine e corrispondenti ti appaiono i gesti come in un accennato passo di danza.

E l’efebico viso angelico ti si rivela una replica del volto di Maria ora colto di profilo, chiarissimo al pari e d’una luce che non proviene da una fonte che distintamente collochi nella regola dello spazio dipinto. L’ambiente illude un interno dall’ampia volta, un corridoio forse che, di fronte, si apre, laggiù, su un luminoso paesaggio. Ne cogli, ma lontano, un sentore d’acque di lago. Increspate, ti sembra, in una luce di crepuscolo da un vento costante, ma debole. L’aria non prova i rami dei teneri alberelli che mettono le nuove foglie della primavera.

Un crepuscolo primaverile di rosa e di gialli tenui. L’ampio cielo in alto prende una venatura che allude a un viola, ma appena velato, come si addice all’ombra della notte quando recede per dar campo alle prime chiarie del nuovo giorno.