Domenica di sangue nel nord-est della Nigeria, in quattro villaggi dello stato del Borno tutti nel raggio di pochi chilometri da Chibok, teatro ad aprile scorso del rapimento delle oltre 200 ragazze ancora nelle mani del gruppo islamista Boko Haram.

Secondo quanto riportato da testimoni e dalla stampa locale, sospetti militanti del noto gruppo qaedista nigeriano, avrebbero lanciato diversi attacchi simultanei a Kautikari, Kwada, Ngurojina e Karagau, dando fuoco alle case e sparando sulla gente in fuga nella boscaglia circostante. Al momento rimane ancora imprecisato il numero dei corpi ritrovati, probabilmente tra i 40 e i 50 secondo le fonti delle maggiori agenzie internazionali. Bilancio che pare però destinato a crescere.

Nel villaggio di Kautihkari, la furia omicida, con bombe a mano e raffiche di mitra, si è accanita contro i fedeli riuniti in una chiesa durante la celebrazione domenicale facendone una carneficina. Tra gli edifici di culto distrutti vi sono la Protestant Church of Christ, la Pentecostal Deeper Life Bible Church e la Ekklesiyar Yan’uwa. Residenti e bande di vigilantes armati di archi e frecce lamentano ancora una volta la lentezza con cui l’esercito è intervenuto e il rifiuto dei soldati di confrontarsi con gli estremisti, contro i quali, sostengono alcuni testimoni in garanzia di anonimato, hanno sparato da lontano. Ciò che resta di questo ennesimo inferno durato qualche ora, sono zone spettrali e semi-deserte, quasi uno scenario da far west con corpi sparsi per terra tra l’eco di un silenzio terrificante, il fumo e il puzzo di bruciato.

Quello di due giorni fa è l’ultimo di una serie di attacchi ravvicinati – tutti attribuiti a Boko Haram – susseguitesi negli ultimi giorni. A cominciare da mercoledì scorso quando un’esplosione nella capitale durante l’ora di punta, nei pressi del noto centro commerciale Banex Plaza, ha fatto tremare il signorile quartiere di Wuse 2, uccidendo almeno 21 persone e ferendone circa 50. Il boato ha mandato in frantumi i vetri degli edifici circostanti e avvolto l’area in colonne di fumo nero. Si tratta in questo caso della terza bomba che ha colpito Abuja nel giro di tre mesi dopo quella di maggio (15 morti) e l’autobomba alla stazione degli autobus di aprile (circa 75 le vittime), ma del primo attacco nel centro della città (dopo un periodo di relativa tranquillità seguito all’attacco al compound dell’Onu di agosto 2011). Un’altra esplosione nella notte di venerdì in un bordello della città nordorientale di Bauchi ha ucciso invece 11 persone e ne ha ferite 28, stando a quanto riferito dalla polizia.

Attacchi che confermano l’onda implacabile di violenza, quasi uno tsunami incalzante – irradiato dalle roccaforti nordorientali di Boko Hram contro centri urbani e aree rurali – che si sta via via intensificando nonostante il sostegno occidentale al governo nigeriano a seguito della mobilitazione della comunità internazionale per la liberazione delle ragazze rapite.

«Questa è una delle fasi più buie della storia della nostra nazione», ha commentato il presidente nigeriano Goodluck Jonathan in visita nella capitale dopo l’attentato nel centrale e affollato quartiere commerciale della città. Un Jonathan dal volto cupo, precipitatosi a tornare dal Gabon dove si trovava per il summit dei Paesi dell’Unione africana, consapevole che gli ultimi avvenimenti non faranno che esacerbare le critiche contro la sua amministrazione e contro l’incapacità dell’esercito di proteggere i civili e la più grande economia dell’Africa da Boko Haram, al momento la più importante minaccia alla stabilità del Paese.

Intanto, mentre dalle colonne del Washington Post di venerdì Jonathan ha voluto assicurare l’opinione pubblica che il suo governo e i servizi di sicurezza non hanno «risparmiato nessuna risorsa, non hanno smesso e non si fermeranno fino a quando le ragazze non siano tornate a casa» gli Stati uniti hanno fatto sapere di aver ridotto i voli di sorveglianza. Tagli compensati, secondo un funzionario della difesa americana espressosi in anonimato, dal sostegno britannico e francese. Mentre il portavoce del Pentagono, l’ammiraglio John Kirby, ha negato che la ragione alla base sia la necessità di concentrare maggiori risorse in Iraq.