L’idea di un Marx che nella sua critica dell’economia politica miri alla costruzione di un’antropologia monodimensionale schiacciata sul lavoro e, dunque, sull’annullamento di ogni altra possibilità di emancipazione se non quella della lotta di classe all’interno della configurazione del rapporto capitale-lavoro è, storicamente, una delle critiche più feconde a tutto l’impianto teorico del filosofo di Treviri.

NON È UN CASO se molto spesso nel dibattito a sinistra (almeno quello più alla moda) paradigmi teorici tesi a smarcarsi da questa lettura siano quelli che maggiormente raccolgono entusiasmi in una realtà che vede il capitale assorbire completamente il lavoro, ponendosi come totalità.

I vari anti-lavorismi, il fully automated luxury communism, l’accelerazionismo di destra e di sinistra trovano forse la loro filiazione proprio in una certa tradizione esegetica che è sempre stata in imbarazzo di fronte alla presunta idea marxiana di una ontologia del lavoro in quanto «modello» dell’agire umano.

L’ULTIMO LIBRO di Riccardo Bellofiore, Smith Ricardo Marx Sraffa: il lavoro nella riflessione economico-politica (Rosenberg&Sellier, pp. 398, euro 24) non solo aiuta a ricostruire con spirito filologico gli elementi costitutivi della teoria del lavoro, prima e dopo Marx, così come si è configurata nella storia dell’economia politica, ma rende evidente come siano le risposte alle domande ancora inevase su quella teoria a essere valide, più in generale, per molte vexatae quaestiones sulla natura stessa del sistema capitalistico. Perciò, l’origine dell’idea della liberazione dal lavoro è da ricercarsi nella tradizione liberale dove il lavoro – ricorda Bellofiore – fu sempre toil and trouble e mai possibile realtà appartenente alla sfera dell’umano, anche al di fuori dei rapporti di produzione.

È PROPRIO il Keynes avvertito oggi come più attuale e contemporaneamente più utopico,- quello delle Economic Possibilities for Our Grandchildren – a concepire l’unica realizzazione possibile dell’uomo fuori dall’ambito dell’economico in una società liberata dal lavoro salariato attraverso la sempre più capillare automazione dei processi produttivi. Un Keynes che, in fondo, senza prevedere «l’espansione artificiale dei bisogni» caratteristica del capitalismo contemporaneo, somiglia molto al Marcuse di Eros e civiltà nel ribaltamento totale del principio di realtà a favore del principio del piacere, con la valorizzazione del gioco e dell’ozio.

Proprio le critiche di sponda femminista a questo fraintendimento sulla strada della costruzione di una antropologia marxista (come ad esempio quella di matrice psicoanalitica di Nancy Chodorow) sono per Bellofiore utilissime a riconsiderare tutto l’impianto del problema. L’autore avverte che se è lecito pensare con Claudio Napoleoni a una patente di legittimità per il lavoro al di fuori del campo dell’economico, si può allora arrivare a pensare la necessità di una liberazione del lavoro così come configurato all’interno dei rapporti di produzione capitalistici, immaginando un lavoro profondamente diverso da quello salariato, magari non alienato, libero e pienamente umano.

NEI FATTI, IN MARX esiste un senso (e non una teleologia) nella storia del capitale e questo può essere individuato nell’universalizzazione del lavoro e nella conseguente costituzione del lavoratore come individuo essenzialmente sociale. La violenza del capitalismo si prefigurerebbe nell’epoca del neoliberismo ancora più chiaramente, prima ancora che come una violenza sui diritti dei lavoratori come una distorsione della natura del lavoro stesso nella direzione di una sua assolutizzazione.

Questa impostazione del problema consente peraltro all’autore di avanzare un’attualissima critica alle basi della teoria dell’ecomarxismo di James O’Connor. L’economista americano, tentando meritoriamente di conciliare la teoria ecologica con quel Marx «produttivista», mancava di comprendere come la critica marxiana fosse ben oltre la centralità dell’economico e avanzasse una teoria del lavoro che superava sia l’aspirazione borghese di un’uscita dal lavoro come unico orizzonte antropologico sia il suo opposto, ovvero l’azione totalizzante di quest’ultimo sulla natura umana. La sfida reale si configurerebbe, accogliendo i problemi posti dalla piena automazione, come la ricerca di un vero ruolo per il lavoro dentro e per la rivoluzione oltre il capitalismo.