Fedele alla linea di un testo inedito, finora mai rappresentato, la Festa del Teatro di San Miniato per la prima volta nella sua lunga storia (nata nel 1947 nel clima di ricostruzione e riconciliazione siamo a quota 69) inverte la rotta e punta sul dejà vu. Anche se poco. «Questa scelta che può sembrare in controtendenza – rivela Marzio Gabbanini, presidente dell’Istituto del Dramma Popolare, patron della manifestazione – è anche dovuta al fatto che volevamo andare sul sicuro, perché il 9 novembre lo spettacolo sarà a Firenze, all’interno della basilica di San Lorenzo, nell’ambito del Convegno della Chiesa italiana, al quale è atteso il Santo Padre». Evviva la sincerità. In effetti con la Passione del Cristo si va sul sicuro. La storia è «classica», sempre attuale, simbolicamente contemporanea.

Collaudata e dall’impatto felicemente «datato», qualcosa rimanda alle gloriose mise en scène del Théatre du Soleil, è questa Passio Hominis, firmata nel 1978 da Antonio Calenda, protagonista Elsa Merlini (poi Pupella Maggio e Piera degli Esposti), ora ripresa, rimontata e restituita a pienezza espressiva e dinamismo drammatico nel consueto fondale della Piazza del Duomo. Della Passione siamo tutti parte, sembra dirci Calenda. Che quando la elaborò, rifacendosi a sacre rappresentazioni di origine medievale a metà 500 trascritte da Maria Jacoba Fioria (monaca teatina, appassionata amanuense), subì la ferita non rimarginabile del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro: il calvario di un Paese, dilaniato da una sorta di conflittualità permanente.

Attorno al Cristo docilmente irrequieto, vagamente pasoliniano, di Jacopo Venturiero, e alla Maria di Lina Sastri, strepitosa per la frugale incisività del suo dolore di madre quanto commovente per la fragilità imperativa del volere divino, si stringe una comunità di invitati, uomini e donne, artefici e complici, ciascuno a suo modo, del rito della Passione. Sono persone di oggi o appena ieri, un quarto stato uscito da memorie contadine e lotte operaie, resistenti e migranti, figure che sfilano su una grande pedana come sulla passerella dell’avanspettacolo (vaga clownerie felliniana) o nella balera di una festa di paese, fisarmonica e batteria, dove si canta, si intrecciano passi di tango, ci si ferma a chiacchierare seduti davanti alla porta di casa, mentre il gallo canta tre volte e Giuda si specchia nella dissolvenza dei suoi trenta denari.

Poi in fondo, l’orto delle apparizioni, Cristo muore legato a una sedia, una mitragliata alla schiena, come don Pietro, il parroco dei partigiani nella rosselliniana Roma città aperta.