Si intitola Transatlantic Memories of Slavery (Cambria Press, pp. 296, euro 26), curato da Elisa Bordin e Anna Scacchi, ed è – come si evince – un volume dedicato a studiare le memorie transatlantiche della schiavitù. Nei nove importanti capitoli, redatti da studiosi con background teorici e disciplinari differenti, si analizzano aspetti diversi e decisivi della questione, ricollegandosi a un dibattito pubblico internazionale di grande interesse. I lavori di Marianne Hirsch sulla postmemory e di Alison Landsberg sulla prosthetic memory fanno da quadro teorico all’intero volume.

L’obiettivo delle curatrici – come si legge nell’introduzione – è di studiare «il potenziale che attività simboliche e pratiche di memorializzazione hanno nel trasformare memorie private della schiavitù in memorie collettive trascendendo i confini etnici». La storia della cultura popolare americana (e non solo) è, cioè, messa sotto esame, focalizzando l’attenzione sulla sua complicità con il razzismo e la conseguente perpetuazione, all’interno del contesto sociale degli States, di gerarchie razziali di oppressione. Il tema delle memorie culturali dell’Atlantico nero è divenuto rilevante nella sfera pubblica occidentale, vista l’istituzione in Gran Bretagna e nelle Americhe di giornate dedicate a festeggiare la fine della tratta; di leggi memoriali (come nel caso francese della legge Taubira del 2001); ma anche per i tanti plot cinematografici approdati al piccolo e al grande schermo. Si pensi a 12 anni schiavo e Django Unchained, alla discussione che ne ha seguito l’uscita.

Bordin e Scacchi, acutamente, comprendono quanto il ritorno del tema dello schiavismo non sia finalizzato, come vorrebbe una certa logica accademica, a parlare di trauma, perdita e dolore; «esso abbraccia – chiariscono le due curatrici – una narrativa del cambiamento» e una memoria etica che esprime un punto di vista utopico sul passato della schiavitù. Infatti, proprio come è avvenuto in alcuni casi per la Shoah, la nozione di «trauma» ha concorso a sacralizzare le forme del ricordo. Ron Eyerman, Jeffrey Alexander nei loro rispettivi lavori hanno infatti dimostrato come il concetto di trauma non sia dato di per sé, ma frutto di una costruzione culturale: gruppi sociali differenti prendono atto della sofferenza umana e assumono una responsabilità attraverso la pratica del ricordare.

La prospettiva del volume è, quindi, diversa: si rilegge, cioè, quel passato problematico non solo per la storia degli States, a partire da un presente altrettanto difficile, fatto di violenze poliziesche contro i black, di discriminazione quotidiana, di pregiudizi, di povertà. La tensione tra narrazioni e memorie si risolve in una riscrittura «a posteriori» delle memorie: è effetto dell’ironia, strategia narrativa come proposto da Timothy J. Cox, ma anche di una serie di narrazioni, mai solamente americane, che mettono l’accento sul dramma e sul pathos. Nel primo capitolo Renata Morresi analizza, attraverso Django Unchained, come una narrazione possa essere liberata dalla ritualizzazione, senza mai lasciare in disparte l’importanza dell’evento storico. Elisa Bordin, nel secondo capitolo, esamina alcuni documentari di saghe famigliari statunitensi bianche come Traces of the Trade di Katrina Browne e il romanzo cubano El polvo y el oro: l’obiettivo è di indagare sul dialogo con quei soggetti precedentemente percepiti come produttori antagonisti di memorie nazionali.

Il capitolo a firma di Marcus Wood è dedicato invece al rapporto con l’Africa da parte della diaspora africana e di come certe produzioni culturali abbiano argomentato questa relazione; nel contributo di Catherine Reinhardt, inoltre, appaiono le pratiche commemorative in quanto terreno contestato per storie alternative nelle comunità dei Caraibi orientali. Tuttavia, come cambiano le memorie della schiavitù in base al gruppo, all’età, al contesto storico e al luogo? Comparando i siti turistici relativi alla tratta in Africa e nell’America del Sud, prova a rispondere Paulla Ebron. Stefano Bosco si sofferma sulla narrazione della schiavitù nei film del regista brasiliano Carlos Diegues, mentre Irina Bajini indaga le telenovelas dei Caraibi alla ricerca di contro-storie. Nell’ottavo capitolo, Anna Scacchi affronta le modalità narrative della schiavitù nei romanzi per teenagers negli Usa, in Jamaica, in Brasile e in Inghilterra e di quanto siano rappresentative di un nuovo racconto della tratta, con effetti anche in termini di percezione collettiva del passato. Nell’ultimo capitolo, infine, Elisa Bordin e Anna Scacchi intervistano il regista Kenya Cagle sul soggetto del suo film: Nat Turner