Qualcuno cominciava a ingrassare, a vista d’occhio, anche se eravamo ancora giovanissimi. Non ci volle molto a capire che la causa erano i dolci, le abbuffate che stavano lasciando il segno sul fisico di chi non riusciva a smaltire quegli alimenti ipercalorici. Ogni domenica mattina, da ottobre a Pasqua, avevamo preso la piega di compiere il giro delle pasticcerie del centro, diventando presto intenditori di babà di pan di spagna imbevuto di rum, di bignè con panna ricoperti di glassa, di fruttoni di pasta frolla con marmellata di mele cotogno, di cannoli ripieni di scaglie di cioccolato, di diplomatici di sfoglie spalmate con crema e inzuppate di liquore, di cassate farcite di ricotta e canditi, di porzioni di torta di pasta di mandorla e… di tutto ciò, non è che fossimo necessariamente golosi! Ci sfidavamo, in un gioco di cui avevamo toccato il limite. Il gioco consisteva nel superarci a ingurgitare il maggior numero possibile di paste, senza che nessuno cacciasse una lira per pagarle. Insomma ci eravamo inventati quel diversivo per il gusto di scroccare. Raggiunto un livello soddisfacente di generalizzato benessere sociale, cresceva la domanda di dolciumi che fino a pochi anni prima era stata prerogativa delle famiglie abbienti. La guantiera di paste appena sfornate da portare a casa per il pranzo domenicale rappresentava un segno d’inequivocabile agiatezza. Nelle pasticcerie, la domenica mattina, era un tripudio di tavoli imbanditi di vassoi colmi d’ogni tipo di dolci. All’ora di punta, intorno a mezzogiorno, si riversava la folla del passeggio, e puntuali piombavamo. Scegliendo il pezzo da consumare sul posto, il cliente passava poi alla cassa per pagarlo. Solo che, nel trambusto generatosi, noi saltavamo il passaggio finale e con tutta calma guadagnavamo l’uscita leccandoci le labbra untuose di creme e le dita imbrattate di zucchero a velo. Quindi entravamo in un’altra pasticceria dove, trovando lo stesso bailamme, ripetevamo la bravata arraffando più paste se erano di formato mignon. E via di questo passo. Al ritorno a casa, ci si sedeva controvoglia a tavola con i familiari fingendo di mangiucchiare. Come si poteva sopportare l’odore intenso del ragù sprigionato dai piatti colmi di lasagne al forno o di fettuccine alla bolognese, graditissimi agli altri commensali? Eppure, anche se la domenica non mangiano quasi niente per la fretta di andare alla partita (la versione che fornivamo), stanno pieni come torelli – si consolavano le mamme. Non si giungeva mai a fine pranzo: scattavamo come molle appena compariva la guantiera portata da papà che adulti e bambini si precipitavano a scartare. Strani questi ragazzi, dicevano, che all’arrivo dei dolci se ne scappano.