Il cosiddetto «emailgate» torna al centro della convulsa campagna elettorale americana. L’annuncio del direttore dell Fbi James Comey, sui «nuovi elementi» nell’indagine che riguarda la gestione privata di comunicazioni riservate del dipartimento di stato da parte di Hillary Clinton, ha riaperto un caso che istituzionalmente lui stesso aveva praticamente lo scorso luglio. Allora aveva dichiarato che l’indagine dell’Fbi sui contenuti del server che la Clinton aveva installato (con «estrema noncuranza»)  nella propria abitazione di New York, non aveva comunque ravvisato gli estremi di condotta criminale da parte dell’ex segretario di stato.

La decisione, avvallata dall’attorney general Loretta Lynch, aveva sollevato allora un coro di proteste dal parte dei repubblicani  e di Donald Trump che sulla faccenda aveva imbastito la propria campagna di «Hillary corrotta» adducendo regolarmente le mail e l’affaire Benghazi come prova di non-idoneità ad assumere il grado di comandante in capo. L’archiviazione dell’inchiesta penale a suo carico aveva rimosso una spade damoclea dalla campagna di Hillary Clinton. L’annuncio a sorpresa di Comey, contenuto in una lettera spedita venerdì ai presidenti delle commissioni del senato, riapre uno scomodo fascicolo con una «october surprise» che non ha precedenti.

A soli dieci giorni dall’apertura delle urne è stata una conflagrazione che ha provocato il panico nella campagna democratica e innescato le speculazioni di operatori politici, analisti e osservatori. Nella sua lettera Comey indica che nel corso di una indagine separata sarebbero emersi nuovi elementi «apparentemente attinenti» alla questione delle email di Hillary. Poco dopo è emerso che quegli elementi erano contenuti nell’ipad, telefono e computer sequestrati ad Anthony Weiner. Weiner è l’ex deputato e giovane speranza dell’ala progressista del partito democratico caduto in disgrazia in seguito ad una serie di foto compromettenti a sfondo sessuale spedite ad una serie di donne. I ripetuti episodi di «sexting» gli sono costati la brillante carriera politica e in seguito il matrimonio con Huma Abedin, l’altrettanto brillante braccio destro proprio di Hillary Clinton.

È questa connection con Hillary che spiega come l’Fbi, nel mezzo di un indagine sugli ultimi messaggi illeciti spediti da Weiner ad una quindicenne, avrebbe trovato sui computer di casa, condivisi dalla moglie un numero imprecisato di mail fra Huma Abedin e la Clinton (e apparentemente spedite dalla Abedin a Hillary, non viceversa.) Fin qui i fatti che, malgrado l’immediata celebrazione dei repubblicani («prevale infine al giustizia» ha subito eslutatato Donald Trump), non costituiscono una riapertura ufficiale delle indagine su emailgate  ma una semplice «valutazione di nuovi elementi» di potenziale interesse, ovvero i messaggi di cui lo stesso Comey ha ammesso di non aver ancora preso visione.  Ed è proprio la vaghezza che rende controverso l’annuncio di Comey. «Siamo a dieci giorni dall’elezione potenzialmente più importante  delle nostre vite» ha dichiarato una Hillary Clinton chiaramente presa in contropiede in un briefing organizzato in fretta e furia. «Il popolo americano ha diritto a conoscere subito tutti i fatti».

Le ha fatto eco un coro di critiche indignate alla decisione di Comey, qualificata come inaccettabile ingerenza. La senatrice democratica californiana Dianne Feinstein ha deplorato la «sconcertante» ingerenza politica di Comey che «senza fornire elementi concreti da valutare ha semplicemente fornito un assist politico alla campagna di Donald Trump a dieci giorni dalle elezioni».

Le ultime indiscrezioni rivelano che la decisione di Comey è stata presa contro l’apparentemente  esplicita volontà del ministro di giustizia Lynch. Comey è una figura istituzionale identificata con ambienti repubblicani moderati anche se attualmente dichiara di non avere affiliazione politica. È stato avvocato e procuratore di New York, ha fatto carriera all’interno del dipartimento di giustizia giungendo nel 2005 ad essere sostituto del attorney general John Ashcroft  nell’amministrazione di George Bus. Dopo alcuni anni nel settore privato e accademico è stato nominato direttore dell Fbi da Obama nel 2013. Le azioni quantomeno inconsuete di questo fine settimana lo hanno scaraventato al centro della storia politica di queste elezioni. La pioggia di critiche sembrano averlo indotto a spiegare la decisione.

In una nota interna in cui scrive «naturalmente siamo restii ad informare il congresso su indagini ancor in corso. Ma in questo caso sarebbe stato fuorviante non informare il popolo americano». Una dichiarazione che come ogni nuovo elemento sembra rendere più singolare questa faccenda. Se i nuovi accertamenti sono talmente preliminari infatti da non costituire nemmeno un indagine ufficiale perché creare lo scandalo, a meno che Comey non conosca contenuti effettivamente compromettenti. In questo caso perché non comunicarli. E se gli accertamenti potrebbero effettivamente – come dichiarato da Comey – durare per settimane e mesi perché renderli noti si chiedono i molti che trovano insufficiente  e dubbia la motivazione di «informativa preventiva» fornita da Comey.

Resta per ora da appurare quante siano le presunte mail rinvenute, se siano messaggi inediti e semplici duplicati di quelli già presi in esame dall’Fbi l’anno scorso e infine se si tratti o meno di comunicazioni di stato o addirittura top-secret. In assenza di dati a riguardo molti concordano con la valutazione data da Paul Krugman in una stringa di tweet:  «Cè un vero scandalo qui, ma riguarda il comportamento di Comey, non quello di Hillary». Qualunque sia l’eventuale esito, il danno di immagine a Clinton nella fase critica della campagna è acquisito e l’irruzione dell’Fbi rimarrà  negli annali delle sorprese d’ottobre.