Sexy, procace e glamour. Nell’immaginario collettivo la figura di Donna Summer, la regina della disco scomparsa lo scorso anno, resta impressa soprattutto per i cinque anni di intensa collaborazione con l’altoatesino Moroder (1975-1980) e la sfilza impressionante di hits piazzate nelle classifiche di tutto il mondo. Un periodo durante il quale ha incarnato varie figure femminili, scrivendo testi (e spesso musiche) che si muovevano fuori dal clichè dei beat in 4/4 e del mero «invito alla danza».
È stata – negli album che uscivano dai Musicland di Monaco e poi da Los Angeles, cenerentola, pop diva, ragazza di strada e rocker grintosa, per poi riposizionarsi – dal 1982 al 1991 quando si interrompe di fatto la carriera discografica, su territori squisitamente pop e (cautamente) r’n’b.

Love to love you Donna – appena pubblicato negli Usa e in uscita il 29 ottobre anche da noi – rilegge con l’aiuto di alcuni dei maghi della consolle, dodici classici della diva di Boston dal 1975 al 1982. Originariamente pensato come omaggio di altri colleghi del repertorio della Summer, il disco ha cambiato forma grazie all’intervento di David Foster, direttore della Verve nonché amico della cantante, che ha ripensato in toto il progetto. Perché se Donna – anche nell’ambito disco – ha cercato di muoversi in diversi stili musicali, era giusto ’rinfrescare’ quelle canzoni affidandole a dj e produttori dalle differenti caratteristiche. Operazione non così scontata, perché a rimetter mano a brani entrati di diritto fra i classici del dance floor si rischia un effetto destabilizzante. Come capita al dj britannico Duke Diamont che spegne letteralmente il beat allegro di On the radio (1980, era il tema del film Foxes, con una giovanissima Jodie Foster) e occulta la melodia dando risalto a una ossessiva (e incomprensibile) sequenza di bassi e percussioni.
Estrema – ma decisamente più riuscita – è la ripresa del duo newyorchese Holy Ghost! di un classico minore Working the midnight shift (una delle tracce della facciata ’elettronica’ di Once upon a time, 1977), dove campionano solo alcune parti vocali originali reinterpretando ’inciso e ritornello’ in studio.

Frankie Knukkles e Eric Kupper giocano invece la carta della «contemporaneità»; riprendono Hot stuff (così come fanno Chromeo & Oliver che in Love is in control remixano sua maestà Quincy Jones) e invece di sample, beat accellerati e quant’altro conferiscono all’inno delle ’ragazze facili’ un appeal decisamente radiofonico. Classico è anche l’approccio di Masters at work che hanno fra le mani la canzone premio Oscar del 1978, Last dance, quasi sette minuti di sinfonia dance con orchestra e lustrini. Little Louie Vega and Kenny Dope Gonzalez catturano la prepotente vocalità di Donna e la convogliano su una versione che privilegia l’aspetto ritmico delle chitarre, lasciando sullo sfondo gli archi dell’originale.

In coda Love to love you donna, serba l’inedito d’ordinanza inciso un paio di anni fa a Nashville (dove abitava la cantante) e consegnato – per il tocco finale – a Giorgio Moroder. La dolce vita, è un pop tune in 4/4 con più di un riferimento alla scuola di Monaco, con un ritornello implacabile ma che suona decisamente deja vu. Ricatturare l’essenza dell’original – ne sa qualcosa Afrojack che su I feel love interviene giusto il necessario – è impresa improba anche per chi quello stile e quell’epoca l’ha modellata.