Ed ecco che finalmente riesco a entrare anche io il Party post proiezione in sala grande. Comincia a mezzanotte, che se non hai visto niente allo spettacolo delle 10 non sai che fare nell’attesa, e magari finisci al giardinetto sui cuscini di pelle davanti ad un ennesimo schermo dove si vede, in loop, qualcosa che si chiama «Derive veneziane» ed è una lunghissima soggettiva di una imbarcazione tra i canali. Risultato: sonnolenza incipiente. Ebbri della reazione calorosa del pubblico (quasi sempre chi va a vedere il film allo screening ufficiale subisce il fascino ricattatorio della presenza in sala di coloro che hanno preso parte all’avventura cinematografica appena condivisa ed applaude, almeno allo schieramento nella prima fila della galleria, con passione rispettosa) il cast e la troupe percorrono le centinaia di metri che separano il palazzo del cinema dal luogo della festa. Sono tutti in ghingheri, lustrati, leccati, imbellettati – attori registi direttori della fotografia montatori scenografi costumisti (il tappeto rosso ha le sue regole) – uomini e donne (povere, camminare a piedi con tacco 12 a punta, non le invidio).

Le feste sono tutte uguali. Nemmeno la gente è diversa. Sembrano tutte simulate, piene di figuranti comparse e figurazioni speciali.
Ci sono facce note, medio note, anonime. Due o tre visi sono indimenticabili, beh sono esagerata, uno massimo due. Alla festa dove sono io c’è un’attrice francese con magnifico viso dai colori mediorientali: è accanto a un premio Oscar, che è suo marito. Sorridono, parlottano tra loro, ogni tanto qualcuno gli si avvicina e li corteggia. Io e F stazioniamo tutta la sera nei loro paraggi, mezzo coperti da un cartonato a grandezza-uomo del film che stiamo lietamente festeggiando.

Il mio amico A, poche ore fa, mi ha detto: «E trasgredisci almeno una volta!». Ma non ho avuto il coraggio di avvicinarli (per dirgli cosa poi?) né di osare null’altro tranne che perdere stupidamente ore di sonno non facendo nulla. La Bella indossa un sobrio vestito nero con strass sul dorso. Un romano dice: «co’ ‘na grattatina so’ già mille euro». La mia mise assai alla buona mi fa rimpiangere i vestiti di Marguerite (omonimo film, Xavier Giannoli,) e Lili in The Danish Girl (Tom Hooper): magnifici abiti anni venti di rete ricamati a mano nei toni del blu cobalto, del rosa antico, perle e strass e piume come migliori amici. Ma non ne ho in nessun armadio né al lido né a casa. Vabbè. Andando alla toilette, non per annusare della polvere bianca (come ho visto fare ripetutamente poche ore fa in Non essere cattivo di Claudio Caligari) penso al filo per trovare la strada del bagno srotolato dal ragazzo temporaneamente cieco nell’abitazione sotterranea in Underground Fragrance (Pengfei). In pista c’è un tipo con un curioso cappellino addosso che tenta di ballare su musica imballabile.

Accenno qualche passo timidamente ma le orecchie me lo proibiscono. Cappelletto si ostina. Al piano superiore F lo vede e si inchina ai suoi piedi. Al termine di codesta genuflessione gli chiedo il perché. È Maccio Capotonda ma io non so chi sia.(Mentre sono qui in laguna persa nei mio delirio da adolescente inquieta, da temporanea studentella fuori sede, per riportarmi all’ordine, arrivano da Roma sulla chat di whatsapp i messaggi delle «mamme del modulo» che mi chiedono se sono pronta per il prossimo ritorno a scuola. No, no, non sono pronta, no). (fabianasargentini@alice.it)