La musica è arrivata ultima nella scrittura, e si è spesso servita del modello letterario, per esempio per dare nome alle note. I greci hanno utilizzato le lettere dell’alfabeto per designare le note musicali, così com’erano servite per annotare i numeri, e questa nominazione è ancora vigente tra tedeschi, inglesi, e altri popoli. I nomi possono così diventare motivi musicali: l’esempio più famoso è Bach, si bemolle la do si naturale. Questo sistema serviva soprattutto ai teorici. I musicisti si sono tramandati a lungo per via orale la pratica musicale. I monaci bizantini cominciarono a usare i segni diacritici della scrittura per designare le figure musicali, il punto, la virgola, l’accento. Il sistema fu adottato anche dalla chiesa occidentale, sotto Carlo Magno. L’invenzione delle righe per precisare le altezze – tra un rigo e l’altro la distanza di una terza, lo spazio tra le righe la distanza di un tono sia dal rigo superiore che da quello inferiore.

Era stata inventata una scrittura che permetteva di trascrivere anche melodie complesse. Il canto ecclesiastico, detto anche romano – ma in realtà francese – si serve di quattro righe, un tetragramma. Con l’avvento della polifonia ci fu bisogno di aggiungere un rigo, ed ecco il nostro pentagramma. La distinzione dei valori di durata delle note, lunga, breve, semibreve, etc. perfezionò il sistema, permettendo la scrittura anche dei ritmi, oltre che delle melodie. Di fatto intorno all’XI secolo abbiamo già un sistema che con progressivi aggiustamenti è il nostro. Ma sarebbe sbagliato pensare che il sistema fosse impreciso, imperfetto, e si sia andato via via perfezionando. Ogni sistema è quello giusto per la musica per la quale è usato. La tradizione, la pratica musicale, l’improvvisazione riempiono gli spazi musicali che mancano alla scrittura. Solo dal XVII secolo si cominciano a indicare gli andamenti di tempo: allegro, adagio, andante. E non sempre. Ancora Bach non indica sempre l’andamento di un brano, né tanto meno la sua dinamica, piano, forte. Se il brano è una danza, è il ritmo stesso della danza a dare il tempo. Nel madrigale cinquecentesco sono gli affetti, sentimenti, del testo a guidare l’interprete sul tempo e sul carattere del canto.

Lo sviluppo della musica strumentale, destinata non solo a musicisti di professione, ma anche ai «dilettanti», rese necessarie nuove annotazioni per l’esecuzione. Nel periodo romantico, quando l’espressione del sentimento che il brano voleva suggerire divenne un’esigenza primaria sia del compositore sia dell’interprete, si infittirono le indicazioni sui modi di esecuzione: dolce, espressivo, energico, ecc. Anton Webern, nei primi decenni del Novecento, condusse alla più radicale riduzione dell’espressione limitandola a pochissimi suoni, e anche su un singolo suono scrive però «espressivo» (ausdruckvoll): si può cantare intensamente anche un solo suono. Ma per quanto un compositore si sforzi di essere preciso nel dare indicazioni di come il brano vada eseguito, resta sempre un margine di libertà che non può essere scritto. Per esempio: forte rispetto a quale piano? E quanto languido? O quanto barbaro (Bartók scrive un Allegro barbaro)? O quanto furioso? Skrjabin chiede nel tempo finale di una sua sonata per pianoforte di suonare «il più rapidamente possibile».

Perciò, quando un interprete dice di essere fedele alla partitura, di suonare «solo ciò ch’è scritto», sta mistificando il fatto che la musica non è fatta solo di ciò che sta scritto nella partitura, bensì dell’interpretazione di quanto non vi può essere scritto. Quale fraseggio? quanto staccato? quanto legato? A quale voce dare più rilievo in un passo contrappuntistico? Certo, l’arbitrio che stravolge le indicazioni di tempo non è ammissibile: quanti direttori rispettano l’indicazione Allegretto, nella Settima Sinfonia di Beethoven? Molti lo fanno sembrare un Andante, se non addirittura un Adagio. Non esistono interpretazioni troppo mosse o troppo lente. Un tempo lento può risultare intenso e movimentato più di un tempo mosso, se il fraseggiare è monotono, la dinamica povera.