Ibrido, aggettivo da sempre di casa al festival internazionale del film documentario e di animazione di Lipsia, lo è ancora di più quest’anno. Crocevia di cinema dal vero e immagini artefatte, ricostruzioni disegnate della realtà e riprese analogiche oggettive, ma non per questo immuni da manipolazioni, la 63ª edizione di Dok Leipzig (26 ottobre-11 novembre) con estensione online di un’ulteriore settimana) ibrida anche la formula fruitiva per mettersi al riparo dalla pandemia. «DOK Leipzig presenta una versione ibrida versatile e innovativa del suo programma nel 2020, che combina attività online e presentazioni in loco nelle sale di Lipsia» dichiara il nuovo direttore Christoph Terhechte, che aggiunge «nel 2021 ci proponiamo di riaccogliere i cineasti di persona a Lipsia».
Festival ibrido con circa 140 film, quindi meno e più selezionati di prima «per non sovrabbondare gli spettatori», oltre alle proiezioni su grande schermo per il pubblico locale presenta larga parte del programma online in tutta la Germania e, per gli accreditati, a livello globale mettendo a disposizione conversazioni, podcast e gli eventi dell’industria cinematografica.

Il carattere sfaccettato di Dok Leipzig si manifesta, più che mai in questa edizione, per la diversità di percorsi possibili in cui il programma si articola. Ci sono percorsi delineati trasversalmente per tematiche nello spirito hashtag quali «legami familiari», «redistribuzione e partecipazione», «lo stato del mondo», «poesia e sconfinamenti». C’è la divisione classica per 6 categorie in concorso per le Colombe d’oro e d’argento. Ci sono quelle internazionali per lungometraggi documentari (da 41 minuti in su), per la prima volta per lungometraggi animati e per cortometraggi (fino a 40 minuti) sia documentari che animati. Osserviamo come la denotazione di quest’ultima continui a «contrapporre» genere a tecnica, ovvero documentario (genere, non finzionale) a animazione (tecnica, non ripresa dal vero), rivelando una perdurante non totale conciliazione al riguardo.

Eppure proprio Dok Leipzig è stato, fra i maggiori festival negli anni, sicuramente quello più naturalmente ospitale per l’ibrido documentario animato. Tant’è, la giuria assegna una Colomba d’oro per un corto «documentario» e una per un corto «animato». Allo stesso modo si suddividono i tre concorsi tedeschi. Viene introdotto poi per la prima volta un premio del pubblico, seppur delimitato e scelto sia per votanti che per film da confrontare.

Una selezione, mirata e diversa dalle altre, di 20 documentari e film animati da 12 paesi nella Golden Section in gara, con molte prime mondiali o europee, è giudicata da 7 spettatori cinefili in rappresentanza del pubblico. Fra i nuovi registi in luce figurano anche Rocco Di Mento di The blunder of love e Luca Lucchesi con A black Jesus prodotto da Wim Wenders. Seppur targate Germania, entrambi le opere hanno forte impronta italiana: la prima ricerca nel passato radici e appartenenza, mentre la seconda mostra le emblematiche contraddizioni sociali di Siculiana, del suo venerato Cristo nero e della presenza di un campo profughi popolato da neri.

In questa sezione dorata brilla anche il documentario corto ma incisivo Hello, We lied che entra in pieno nell’agone elettorale Usa sulla questione calda della fabbrica di notizie false. In 12’ la regista Laura Gamse svela con leggerezza i trucchi della diffusione di informazione mendace, soprattutto intervistando «il padrino dell’industria delle fake news» Jestin Coler.

Dopo che il tracciante di una macchina della verità scrive il titolo, e un’antologia di voci giustapposte ricorda famose menzogne pronunciate, fra cui quella di George W. Bush sulle armi di distruzione di massa in Iraq, si carrella da paesaggi di campagna a interni verso Coler. Il suo impero di siti web ha discutibilmente fatto oscillare i risultati elettorali del 2016 a favore di Trump. Bastò appena uno 0,06% di virata nell’intenzione di voto degli elettori di quattro anni fa per rovesciare i pronostici. Partendo con intenti satirici con la testata online National Report, ha avuto cento milioni di visioni per bufale artatamente disseminate. Fra queste un improbabile finanziamento da parte di Obama di un museo musulmano, gag rilanciata per vera da Fox News. Con divertenti sequenze farlocche in stile pop trash coreano che ironizza su un Trump presidente del mondo si giunge alla chiosa di Coler: «Alla fine la verità non è così semplice come pensassi che fosse». Per un padrino che passa però ci sono centinaia che proseguono con simili tecniche, mentre a giorni si saprà l’esito delle elezioni 2020.

Vari sono poi i programmi speciali, fra cui Re-Visions che consolida l’ormai tradizionale impronta meticcia del festival con una mirata retrospettiva sulla presenza stessa a DOK Leipzig del film animato. Ne fa parte sin dall’inizio e nel 1995 vi fu istituita una competizione dedicata. Ecco quindi la celebrazione di quest’ultimo quarto di secolo con 25 corti animati diversi per tecniche e forme narrative, dal piglio prettamente politico a quello poetico e surreale, dai doc di creazione a episodi di mera invenzione. Dall’anno di esordio della sezione viene riproposto Fight da faida, accattivante opera ruvida e artigianale del maestro indipendente piemontese Vincenzo Gioanola, su musica rap di Frankie Hi-Nrg. Nel 2006 esplodono gioiosamente i colori e movimenti di Carnevale di animali, una fantasmagorica fantasia di erotismo sregolato e musica di Saint-Saëns, della ceca Michaela Pavlátová. Sulla stessa linea è My baby left me, realizzato un decennio prima dall’ungherese Mllorad Krstic, che dà libero sfogo alle allucinazioni sessuali di un uomo abbandonato che trasforma qualsiasi cosa in oggetto di palpitante libidine.

Di pura dialettica metafilmica in voiceover arredata da successioni di immagini in stop motion si compone Frankly Caroline di Frank e Caroline Mouris (1999). Qui la coppia americana di filmmaker –lei produttrice, lui regista- discute animatamente con brio su come realizzare un’autobiografia della donna, dopo quella dell’uomo (Frank film, 1973) con cui vinsero un Oscar.

La coppia svedese David Aronowitsch e Hanna Heilborn invece ha realizzato rigorosi documentari animati basati su interviste a migranti minorenni, fra cui Slavar (Schiavi, 2008) sullo sfruttamento e traffico infantile. Due bambini, Abouk e Machiek, presi prigionieri dalla polizia militare in Sudan e costretti in schiavitù, con disarmante dolcezza raccontano infine da liberi attraverso i loro avatar animati la propria storia. Come suggeriscono, è una condizione difficile tragicamente comune a troppi altri bambini isolati e nascosti dall’opinione pubblica.