Dodici pacchi in cartone stanno facendo il giro del mondo: sono stati spediti da Vienna il 23 luglio, molti di loro hanno raggiunto già la propria destinazione, due sono tornati indietro.

Dentro, dodici paia di scarpe usate, da donna, da uomo, da bambino. Scarpe che hanno percorso lunghi tragitti, affrontato il mare, il cemento, la sabbia, i fili spinati e le cariche di poliziotti europei.

SONO LE SCARPE di dodici rifugiati siriani, raccolte dall’artista siriano Thaer Maarouf e spedite a nove leader del mondo e a tre indirizzi a caso tra Europa e Medio Oriente.

Il pacco, oltre alle scarpe, ospita una lettera di Maarouf e un link al video che spiega il suo ultimo progetto, «Dirty Messages». A riceverlo sono stati, o saranno, il presidente degli Stati uniti Trump, il primo ministro britannico May, il presidente polacco Duda, il francese Macron, l’italiano Mattarella, il premier australiano Turnbull, il presidente spagnolo Rajoy, il russo Putin e l’egiziano al-Sisi.

Le restanti tre paia di scarpe sono state inviate a destinatari random in Ungheria, Grecia e Libano con una richiesta specifica: rispedite il pacco a qualcun altro, fate girare quelle scarpe per il mondo, simbolo semplice ma potentissimo, il viaggio, ma anche la fuga, la distanza, l’ignoto.

«Non mi attendevo alcuna reazione dai governi – spiega Thaer al manifesto – Ma la risposta di quello spagnolo è stata incoraggiante: mi hanno inviato una lettera in cui danno i dettagli della loro assistenza ai rifugiati e dei piani futuri. Il governo britannico invece ha rispedito il pacco indietro, senza dare alcuna spiegazione. A carico del destinatario: ho pagato io per il loro rifiuto».

NON SOLO LONDRA, pochi giorni dopo anche il governo egiziano ha fatto lo stesso: il presidente al-Sisi (noto per sfruttare al meglio la questione migratoria a fini di impunità interna) le scarpe dei rifugiati siriani non le vuole tra i piedi.

«Le scarpe hanno una relazione plastica con l’essere umano. È il contrario dell’idea di stabilità: le togli quando torni a casa, le indossi quando esci. È simbolo di movimento, cammino, viaggio. Per i musulmani, poi, ha un significato speciale: le tolgono all’ingresso delle moschee perché non sono pulite, portano con sé la sporcizia della strada. Ho scelto un simbolo concreto della sofferenza di cui fanno esperienza i rifugiati, arrivati da chissà dove a piedi, un simbolo reale della violazione delle leggi e dell’indifferenza per la geografia. Le scarpe si portano dietro l’impatto di tutto quello che hanno calpestato».

SONO STATI I RIFUGIATI a donare le scarpe usate per il viaggio, iniziato in Siria, transitato in Turchia per poi portare alcuni di loro lungo la rotta balcanica, blindata. Restano chiusi, in attesa, come in attesa restano quelli nei campi profughi in Libano, Turchia e Giordania.

Le dodici scarpe inviate da Thaer Maarouf, foto di Jakob Haueisen
Le dodici scarpe inviate da Thaer Maarouf, foto di Jakob Haueisen

La Siria non è mai stata paese d’origine di emigrazione, se non economica e in piccole quantità: vista l’alta educazione e la formazione d’eccellenza di molti siriani, chi è andato a lavorare all’estero lo ha fatto da professionista, ingegneri, medici, architetti ricercati in tutto il mondo arabo.

OGGI I CINQUE MILIONI di rifugiati siriani (e i sette milioni di sfollati interni) provengono dalle classi media e alta come da quella operaia, provenienze che descrivono – attraverso le vite stesse dei profughi – la devastazione del tessuto sociale e economico di un paese da sei anni in guerra.

Sono medici, ingegneri, proprietari di hotel e ristoranti, professionisti, operai, contadini, insegnanti: lo spaccato di una nazione tra le più stabili del Medio Oriente, oggi risucchiata nel periodo più buio della sua storia contemporanea.

Maarouf ha fotografato le loro scarpe in pila, una sull’altra, immagine dolorosa che ricorda altre tragedie attraverso cui l’Europa è transitata.

TUTTE QUELLE CALZATURE hanno compiuto un percorso lungo e polveroso, hanno attraversato confini nazionali lasciandosi dietro la guerra per trovarsi di fronte altri conflitti.

«Ho incontrato tante persone, mi hanno raccontato nei dettagli il loro viaggio: hanno raccontato delle persone che hanno perso la vita, di quelle arrestate dalla polizia. Hanno raccontato l’ingordigia dei trafficanti e il senso di abbandono. Perché si sentono abbandonati dal mondo intero. A tutti loro ho promesso la stessa cosa: di inviare le loro scarpe nei luoghi in cui sognavano di arrivare, come fossero le loro ambasciatrici. Alla fine è tutto qua: nel ventunesimo secolo per un essere umano ottenere un visto è quasi impossibile, per un paio di scarpe incontrare un leader mondiale è molto più facile».

MAAROUF, che di mestiere è pittore, lo fa con l’arte: le foto delle calzature e le storie dei proprietari saranno esibite, insieme alle risposte dei governi («Ringrazio quello britannico, il pacco con su impresso il loro rifiuto sarà un pezzo da novanta della mostra») a Vienna a settembre, per poi spostarsi nel 2018 a Dubai.

L’obiettivo di Dirty Messages è utilizzare l’arte non più come «mero strumento di intrattenimento o come rappresentazione della bellezza: l’arte è strettamente legata alle questioni dei popoli, è il megafono per verità e giustizia. L’artista combatte con gli strumenti che usa».

COMBATTE ANCHE con i rifiuti a recepire il messaggio che l’arte incarna, amaro simbolo del rifiuto all’accoglienza dell’essere umano. Combatte con le autorità costituite per infilarsi anche tra le pieghe delle opinioni pubbliche e le società civili.

Per questo tre pacchi sono stati inviati a indirizzi causali, o tali in apparenza: un paio di scarpe è stato mandato ad una galleria d’arte di Atene, uno a un’università polacca e uno ad un teatro di Beirut, con la precisa richiesta di fare da tramite verso un nuovo viaggio.

Perché «le scarpe dovrebbero essere costantemente in movimento, mai immobili, mai a riposo: sono la rappresentazione simbolica dei destini».