Il rock per evolversi ha, nel corso degli anni, allargato il range strumentale attingendo via via a sonorità sempre più ampie, e lontane dall’immaginario collettivo e dal cliché chitarre (possibilmente elettriche), basso, batteria (e voce). Tastiere di ogni tipo, percussioni, fiati, archi e chi più ne ha più ne metta, si sono uniti al trittico classico per dar linfa vitale a un genere in continua evoluzione. Tra i tanti strumenti utilizzati ce n’è uno che sembra un po’ scomparso dai radar, la chitarra a dodici corde, tanto elettrica quanto acustica. Sempre di chitarra si tratta e sempre dello strumento di riferimento del rock si parla, ma le differenze sono molteplici rispetto a una normale sei corde: il suono è più morbido, più rotondo, e le corde aggiuntive, specie nella acustica, richiamano quasi un’arpa rendendo il tutto più acuto rispetto alle sonorità medio-basse di una sei corde canonica. Ma, dicevamo, la dodici corde sembra essere scomparsa, o comunque utilizzata in maniera molto marginale rispetto a quanto avveniva fino a un paio di decenni fa, e specialmente a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, quando sono stati scritti e incisi brani che hanno lasciato un segno indelebile nella storia del rock, proprio con la dodici corde come strumento principale.
Già tra i Sessanta e gli anni successivi si può notare un cambio di registro, laddove prima era l’elettrica a esser sfruttata in maniera più capillare dai Settanta in poi, grazie anche al sempre crescente successo del country rock e delle sue derivazioni, è l’acustica a ritagliarsi lo spazio maggiore. In quella decade non c’era quasi disco in cui non fosse presente l’inconfondibile sound della acustica a dodici corde, dai Genesis (gli arpeggi di Supper’s Ready, ad esempio) ai Pink Floyd e via dicendo. In queste pagine abbiamo catalogato alcuni brani in cui la dodici corde svolge un ruolo primario, molti di questi sono per veri appassionati, ma alcuni restano impressi nella memoria di chiunque si sia mai approcciato al rock e suoi derivati.
Partiamo con un vero classicone, composto insieme a Jacques Levy e inciso da Bob Dylan sul suo album del 1976 Desire. Il brano è Hurricane. Otto minuti e mezzo per raccontare la storia di Rubin «Hurricane» Carter, un pugile arrestato e condannato ingiustamente per un triplice omicidio nel 1966, un brano epocale basato su un giro di chitarra acustica dodici corde, una Danelectro Bellzouki, suonata da Vinnie Bell (e non dallo stesso Dylan come molti pensano) e su un ostinato di violino (Scarlet Rivera).
Restiamo su coordinate country e facciamo un salto indietro di cinque anni, nel 1971, quando un gruppo dal nome inequivocabile, America, apparve sulle scene con un disco e un singolo, Horse with no Name, che si rivelerà il loro più grande successo. Le similitudini con Neil Young (sonorità e voce) hanno fatto sì che molti pensassero che la canzone fosse proprio del rocker canadese, forse anche a causa dell’assonanza tra il titolo del brano e il nome del progetto precedente di Young, i Crazy Horse…
Stesso anno, ma attraversiamo l’oceano Atlantico per trovare una canzone che occupa un posto di rilievo anche nella lista delle «500 Greatest Songs of All Time» di Rolling Stone. Si tratta di Maggie May, primo singolo inciso come solista dall’ex Faces e Jeff Beck Group Rod Stewart, inserito nell’album Every Picture Tells a Story. La particolarità del brano – la cui linea melodica viene ricordata a più riprese in brani successivi dello stesso Stewart – sta nella perfetta sintesi tra la dodici corde (acustica) e il mandolino.
Una delle formazioni che più hanno attinto al suono della twelve string guitar è senz’altro la Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin, la cui iconografia del tempo lo raffigurava spesso con una double neck, ossia una chitarra elettrica a doppio manico, uno a sei e l’altro a dodici corde, appunto. Il brano scelto è uno dei più intensi scritti dalla band jazz rock, e ripreso successivamente anche da Mos Def e Massive Attack, You Know You Know, uno strumentale presente nell’album d’esordio (era sempre il 1971) intitolato The Inner Mounting Flame.
Tra post punk, dark wave, electro pop, heavy metal e quant’altro, gli anni Ottanta hanno visto pochi gruppi cimentarsi con il rock classico e con il country, e questo ha influito senz’altro anche sull’utilizzo dello strumento di cui stiamo parlando, e tra le poche canzoni in cui è presente una dodici corde solo un paio sono da ricordare: Wanted Dead or Alive di Bon Jovi, dall’album del 1986 Slippery When Wet, e Free Fallin’ di Tom Petty (da Full Moon Fever, 1989).
La prima vede Richie Sambora impegnato in un arpeggio che riprende stilemi cari al country rock riportati in un climax da hard rock da Fm Usa; la seconda è una classica ballata che apriva il primo disco solista dell’ex Traveling Wilburys, e oltre alla ritmica offre anche un piccolo solo suonato con una Rickenbacker dodici corde.
Molto più prolifici in questo senso gli anni Novanta, ma questa è anche l’ultima decade in cui si riescono ad annoverare e catalogare brani in cui la dodici corde mantiene un ruolo predominante. Proviamo qui a dare conto in maniera cronologica di quanto di meglio fu pubblicato nel decennio in questione, partendo da uno dei più grandi interpreti della sei corde, Stevie Ray Vaughan, il quale nel 1990 si presentò davanti alle telecamere di Mtv per una performance nella serie Unplugged con una dodici corde acustica con la quale diede vita ad alcuni brani del suo album di debutto, Texas Flood, tra i quali Pride and Joy, Testify e, soprattutto, Rude Mood, un blues in 4/4 suonato a una velocità quasi supersonica (264 bpm), dando prova così della sua tecnica eccelsa davanti a un pubblico in visibilio. Sempre in quello stesso anno fu pubblicato un album postumo, The Sky Is Crying, che conteneva il brano Life by the Drop, scritto dal suo amico Doyle Bramhall e registrato da Vaughan con una dodici corde. Tutto ciò lascia pensare che forse stesse cercando nuove strade e nuove sonorità per il futuro, futuro che per lui si è fermato il 27 agosto del 1990.
Non si può certo dire che Ozzy Osbourne non sia stato affiancato da grandi chitarristi, a cominciare dal suo sodale nei Black Sabbath Tony Iommi passando per lo sfortunato Randy Rhoads, fino a Zakk Wylde, con il quale ha inciso (e scritto insieme a Lemmy Kilmister dei Motörhead) Mama I’m Coming Home, da No More Tears, disco del 1991. Il pezzo è chiaramente ispirato alle sonorità southern rock e oltre a presentare un riconoscibilissimo arpeggio, opera di Wylde, è degno di menzione anche per il fatto che è l’unico singolo di Osbourne, in versione solista, ad aver varcato la Top 40 di Billboard. Il 1991 è anche l’anno che vede la consacrazione di un gruppo che faceva della provocazione e della dissacrazione uno stile di vita. Esce infatti l’album Blood Sugar Sex Magik dei Red Hot Chili Peppers. Il disco contiene una delle uniche due canzoni in 6/8 della band, Breaking the Girl (l’altra è Porcelain da Californication). La sequenza di accordi e l’uso del mellotron riportano agli anni Settanta ed è facile notare come le ballad ledzeppeliniane (The Battle of Evermore, Over the Hills and Faraway) siano state fonte di ispirazione per Anthony Kiedis, John Frusciante, Flea e Chad Smith.
Il grunge è stato probabilmente il genere che più di ogni altro ha caratterizzato il decennio, e tra i vari gruppi ascrivibili al movimento nato a Seattle, uno dei più importanti sono stati gli Alice in Chains di Layne Staley e Jerry Cantrell. Dopo un paio di fortunati lavori, nel 1994 pubblicano l’ep Jar of Flies, sei brani dal mood acustico tra i quali spicca il primo singolo, I Stay Away, che viene ricordato da Cantrell come il primo scritto insieme al nuovo bassista del gruppo, Mike Inez. Il pezzo, così come l’intero ep, metteva in luce la doppia anima degli Alice in Chains, in grado di passare, anche all’interno della stessa canzone, da momenti spigolosi e duri ad altri di estrema dolcezza e cantabilità, e forse per questo sono ricordati come una delle migliori espressioni del grunge e del rock di quegli anni.
I Pantera sono stati uno dei gruppi heavy metal più puri e duri, ma per una volta hanno provato un esperimento, riuscitissimo, dando spazio a una sperimentazione quasi catartica, affidandosi a una dodici corde acustica e a una tastiera cupa. La chitarra del compianto Dimebag Darrell accompagna la voce scura di Phil Anselmo nel brano del 1996 Suicide Note pt. 1 (da The Great Southern Trendkill), e fa da contraltare alla pt. 2 che riprende il classico stile heavy della formazione texana. L’ultimo brano che vogliamo prendere in esame negli anni Novanta è una lunga «elucubrazione» virtuosistica di John Butler, chitarrista californiano di nascita ma australiano di adozione, leader del trio che porta il suo nome e che, a fine 1998, pubblica il suo primo disco (John Butler).
Il brano in questione si chiama Ocean e vede l’artista – poco noto da queste parti – impegnato in dodici minuti (totalmente strumentali) di fingerpicking, tapping e varie altre tecniche su una dodici corde acustica. Sicuramente una prova che mostra la grande «scaltrezza» di Butler ma che, alla lunga, poco lascia all’ascoltatore.
Se c’è stato un gruppo negli anni Sessanta immediatamente riconoscibile per l’uso di una dodici corde questi sono i Byrds, ma per loro stessa ammissione tutto nacque da un brano che fu fonte di ispirazione e che potremmo definire, oggi, la madre di tutte le canzoni per una dodici corde. E chi avrebbe potuto scrivere una canzone così importante, influente, per generazioni future se non i Beatles? Il pezzo di cui parliamo è A Hard Day’s Night del 1964, tratto dall’omonimo lp. L’inconfondibile incipit del brano è opera di George Harrison e della sua Rickenbacker 360/12. Rifacendosi a quel sound la band americana in cui militavano Jim McGuinn (poi noto come Roger) e David Crosby e per cui fu coniato il termine folk rock, esordì l’anno dopo con un album e un singolo, cover di un brano scritto e pubblicato pochi mesi prima da Bob Dylan, Mr. Tambourine Man, in cui McGuinn mostrò le potenzialità di quello strumento, che, come detto, fu un tratto distintivo del sound dei Byrds fino al loro scioglimento nel 1973. Ma ancor più di Mr. Tambourine Man il pezzo che meglio inquadra il tutto è quello che dà il titolo al successivo ellepì, uscito sempre nel ’65, Turn! Turn! Turn!, e in cui è presente un bel solo su una Rickenbacker.
Quell’anno fu particolarmente prolifico per la dodici corde e le due band amiche/rivali per antonomasia, Beatles e Rolling Stones, pubblicarono due brani che sono entrati nella storia della musica rock, Ticket to Ride e As Tears Go By.
Il primo fu pubblicato sia come singolo che all’interno dell’album Help! (e nella colonna sonora dell’ominimo film dei Fab Four) e vedeva di nuovo Harrison alle prese con la sua 360/12, il secondo (del quale esiste anche una versione in italiano intitolata Con le mie lacrime suonata dagli stessi Stones) fu scritta dalla coppia Jagger-Richards insieme al loro manager Andrew Loog Oldham, il quale, si narra, costrinse i due a chiudersi in una cucina per scrivere una canzone di loro pugno.
Una prima versione del brano fu affidata alla voce dell’allora diciassettenne Marianne Faithfull, nel 1964, mentre le Pietre Rotolanti la registrarono l’anno successivo con Richards a una dodici corde acustica, Jagger alla voce e con gli arrangiamenti di archi affidati a Mike Leander. Il pezzo fu inserito all’interno dell’ellepì December’s Children (And Everybody’s) e resta una delle ballate più intense degli Stones nonché il primo pezzo scritto dalla coppia Jagger-Richards. Per chiudere con il 1965 non resta che un noto brano dei The Hollies, Look Through Any Window, da Hollies, con Tony Hicks alla twelve string guitar.
Anche un’altra band influente di quel periodo, The Who, scelse di utilizzare la dodici corde per una canzone, Substitute, scritta da Pete Townshend e pubblicata come singolo nel 1966. Il 45 giri raggiunse il quinto posto nella hit parade inglese, e dieci anni dopo, nel 1976, fu ripubblicata raggiungendo di nuovo la top ten della classifica dei singoli più venduti. Inserita tra le duecento canzoni più belle degli anni Sessanta da Billboard, Substitute è stata anche a più riprese «coverizzata», tra gli altri, da Sex Pistols, Ramones e Stereophonics.
E per chiudere con gli anni Sessanta non possono mancare due icone come David Bowie e Jimi Hendrix. Il primo nel 1969 dà alle stampe una delle sue hit più famose, la bellissima ballata che racconta la storia del Maggiore Tom, perso nello spazio, Space Oddity. Uscita nel luglio di quell’anno, appena nove giorni dopo che l’Apollo 11 ebbe toccato il suolo lunare, la canzone vede lo stesso Bowie alla chitarra e la partecipazione al mellotron di Rick Wakeman, poi tastierista degli Yes. Come per i Rolling Stones con As Tears Go By anche Bowie incise una versione in italiano di Space Oddity, dal titolo Ragazzo solo, ragazza sola, con un testo di Mogol. Hendrix, riconosciuto come il più grande chitarrista rock di tutti i tempi, dal canto suo non ha mai dimenticato le origini, in particolare l’amore per il blues del Delta, e lo palesa in una versione acustica in solo del 1969 di Hear My Train A Comin’, che è possibile vedere su youtube.
Ma torniamo agli anni Settanta, decennio d’oro per la chitarra a dodici corde. Tra i brani in esame alcuni riguardano artisti di nicchia o quasi, altri, la maggior parte, sono invece dei veri e propri inni generazionali. Iniziamo con tre canzoni poco conosciute da queste parti: Early Morning Rain di Gordon Lightfoot, registrata e pubblicata in un primo tempo a metà anni Sessanta raggiunse però la notorietà con la ristampa del 1975 per l’album compilation Gord’s Gold; Give a Little Bit dei Supertramp, brano d’apertura del disco Even in the Quietest Moments… del 1977, divenne una hit internazionale, ma il mondo ricorda la band inglese soprattutto per l’album Breakfast in America; Closer to the Heart dei Rush, probabilmente la più nota del trittico in questione, uscita come singolo e poi inserita nell’album del ’77 A Farewell to Kings, è il primo brano della band canadese a esser stato scritto da un «esterno» al gruppo, l’amico Peter Talbot, e anche il primo a raggiungere un posto di rilievo nelle chart britanniche.
Il 1976 vide apparire sulle scene una nuova band, il cui nome indicava chiaramente l’origine, i Boston. Il loro debutto, omonimo, si apriva con un brano destinato a restare un classico di tutti i tempi, More than a Feeling. L’inconfondibile arpeggio iniziale alla chitarra dodici corde è opera del leader della formazione del Massachusetts Tom Scholz, il quale dichiarò di aver impiegato ben cinque anni per la struttura definitiva del brano.
Una delle grandi doti dei Queen fu quella di riuscire a spaziare nei generi e negli stili, questo grazie al fatto che ognuno dei quattro membri era – sia pure in misure e con spazi diversi – anche autore. Tra i tanti generi toccati dalla band non mancò il country folk, con un brano composto dal chitarrista Brian May per il fortunatissimo album del 1975, A Night at the Opera: 39. Una ballata sostenuta in cui May sfoggia la sua bravura anche come chitarrista ritmico e come vocalist, accompagnato dalla cassa in quattro e dal tamburello di Roger Taylor e dal basso pulsante di John Deacon, il tutto condito dall’impasto vocale, vero punto di forza dei Queen.
Nello stesso anno usciva un altro disco epocale, Wish You Were Here dei Pink Floyd, album che prendeva il titolo da una ballata entrata nella storia, e che chiunque abbia qualche dimestichezza con la chitarra e con la musica rock avrà provato a suonare. La canzone ha un intro di dodici corde il cui suono sembra arrivare da una vecchia radio a transistor, per poi aprirsi con la frase solista di chitarra acustica, opera di David Gilmour. Come è noto, la canzone, e l’album tutto, fa riferimento all’ex compagno e leader della band inglese Syd Barrett, già allora alle prese con il decadimento fisico e mentale che lo portò alla morte qualche anno dopo.
Parlando di Breaking the Girl dei Red Hot Chili Peppers abbiano fatto notare come nella scrittura della canzone Frusciante e soci furono influenzati fortemente dai Led Zeppelin e in particolare da pezzi come Over the Hills and Faraway, e proprio questo è da considerarsi il più emblematico tra i brani per dodici corde della band di Jimmy Page, forse ancor più della stessa Stairway to Heaven, il cui incipit resta sì indelebile nella storia del rock, ma oltre all’esser stata tacciata – e non esattamente a torto – di plagio (ascoltate per credere Taurus degli Spirit) viene ricordata nella sua interezza, per i suoi cambi di registro e per l’iconografia che raffigura Page alle prese con la celeberrima Gibson a doppio manico. Ad ogni modo entrambi sono da annoverare tra i brani più importanti mai pubblicati (il primo tratto da Houses of the Holy, 1972, il secondo da Led Zeppelin IV, 1971), a prescindere dalla dodici corde, aggiungeremmo.
E della stessa pasta è l’ultimo pezzo che prendiamo in considerazione, uno di quelli che vengono citati in qualsiasi classifica di genere, che ritroveremmo come una delle canzoni più belle, più conosciute, più coverizzate, con uno dei migliori assolo di chitarra e chi più ne ha più ne metta.
Parliamo di Hotel California degli Eagles, dall’album omonimo del 1976. La canzone ebbe anche delle critiche perché, si disse, il testo faceva riferimento al San Francisco Hotel, noto per esser diventato poi il quartier generale di Anton LaVey, satanista e fondatore della Curch of Satan, e dei suoi seguaci. Per la cronaca la sequenza di accordi arpeggiati, così come uno dei due soli che si intrecciano nel finale, è opera di Don Felder.