Il fascino per la realtà raccontata su grande schermo si rinverdisce a Dok Leipzig fino a domenica 6 novembre. È il più longevo festival del documentario del mondo, fondato nel 1955 e punta culturale avanzata di confronto europeo fra Est e Ovest, dal cosidetto socialismo reale alla caduta del muro di Berlino e oltre fra le diverse tensioni geo-ecologico-economico-sociali che segnano il pianeta. Con approccio originale include sin dall’inizio anche l’animazione che per i più, soprattutto all’epoca, non aveva niente da condividere con la documentazione filmata della realtà. Del resto anche la grande maggioranza di austeri e ortodossi critici cinematografici snobbava i film a passo uno, costruiti fotogramma per fotogramma sulle orme di Emile Reynaud e di Georges Méliès. Nemmeno il potente Disney riuscì a scalfire la ferrea cortina fra Cinema, quello «serio» ripreso dal vero, e cartoni, nonostante Eisenstein, Dalì e Chris Marker. Ne sono passate di rivoluzioni, politiche e culturali, in più di un secolo e a Lipsia, città culla di quella pacifica della DDR, il corpo «estraneo» è stato assimilato fino a polarizzare ogni forma cross-mediale di immagine movente.
LA COURGETTE
Così si arriva all’apparentemente strana coabitazione fra film documentario e quello d’animazione e poi all’inevitabile incontro e fusione che sancisce definitivamente il genere del documentario animato. E quest’anno, per la prima volta, è un lungometraggio d’animazione ad inaugurare ufficialmente «Dok Leipzig» la sera di lunedì 31. Il franco-svizzero Ma vie de courgette (La mia vita da zucchina) di Claude Barras, già presentato alla Quinzaine di Cannes, fra l’altro non è nemmeno un animadoc, ma è tratto dal romanzo Autobiographie d’une courgette di Gilles Paris. Sceneggiato da Céline Sciamma (Tomboy, Girlhood) con musica composta dalla svizzera Sophie Hunger, si tratta di uno stop-motion di pupazzi che narra la storia di Icare, ragazzino di 9 anni soprannominato Courgette, che dopo la morte della madre finisce in orfanotrofio dove ritrova una nuova famiglia con i bambini che incontra. Come l’anno scorso, oltre che alla cerimonia di apertura ufficiale in teatro, il film sarà proiettato in tedesco per il pubblico ad ingresso libero nel salone est della Stazione Centrale, in collaborazione con il centro commerciale Promenaden Hauptbahnhof.
OMBRE TURCHE
La nuova direzione di Leena Pasanen, che succede alla lunga e solida reggenza di Claas Danielsen, si smarca quindi con l’animazione al posto d’onore ad inaugurare tutto il festival, la cui vocazione principale resta comunque il documentario. Attento come sempre ai crogiuoli bollenti del globo, Dok Leipzig dedica quest’anno un focus sulla Turchia titolato significativamente «Shadows of the half moon», con una parte consistente centrata su produzioni politicamente pressanti in aperta sfida alla narrazione ufficiale del governo Erdogan. Fermentazione fresca e aggiornata, la maggior parte del programma presenta realizzazioni degli ultimi due anni, prova di un’attività indipendente sviluppatasi in un clima sempre più repressivo. Le ombre della mezza luna censurate o semi-nascoste tornano in piena luce a Lipsia, come nel caso di Distant… della cineasta curda Leyla Toprak che dà la parola alle combattenti della resistenza in mezzo alle rovine di Kobani. Ne emerge una panoramica di donne che lottano non soltanto contro l’Isis, ma per un progetto di vita autodeterminata dal punto di vista femminile. La causa curda si combatte anche sui campi sportivi in Bağlar, dove i registi Berke Bas e Melis Birder accompagnano una squadra di pallacanestro. Girato in una regione appartata e arretrata della Turchia sud-orientale segnata dalla crisi, il documentario mostra come i giocatori della squadra curda trovano nel basket uno strumento congeniale di autoaffermazione e dignità.
LA CENSURA
DOK Leipzig neutralizza la censura filo-governativa proponendo il film I remember, ritirato dalla selezione del Festival di Ankara lo scorso aprile. Selim Yıldız, regista curdo, ricostruisce il ricordo personale del massacro a Roboski ad opera delle forze armate turche riprendendo i residenti di questa città di frontiera con l’Iraq, la cui vita continua a scontrarsi con la presenza costante di soldati turchi.
Disobbedienza è il motto di questa edizione, politica ma non solo. A quella artistica è dedicata la sezione «Disobedient Images»: reperti di documentari liberamente ricontestualizzati, manipolati, animati. Quattro programmi presentano un percorso cinematografico lungo un secolo dal 1919 al 2016 in cui dialogano e si riaggregano documentario e animazione, analogico e digitale, corti e lungometraggi. L’intento è la sovversione di qualsiasi coerenza imposta, il denudamento dell’artificio della riproduzione fedele e documentale mediante collages, graffi, perforazioni, piste sonore fuori sincrono. L’atto estremo di verità è l’ostentazione della natura corruttibile del materiale di supporto, pellicola o digitale che sia. Trade Tattoo di Len Lye, Removed di Naomi Uman e Outer Space di Peter Tscherkasky sono esempi eloquenti di questa maniera creativa di trattare materiali di repertorio. Non solo l’analogico, ma anche il codice binario può essere corrotto ottenendo per risultato inquadrature infestate da pixel in espansione virale, come in Datamosh di Yung Jake e #47 di José Miguel Biscaya. Il programma «Disobedient by Nature» ci ricorda l’impronta ribelle sin dalle sue origini del film animato. Palestra prediletta dell’immaginazione cinematografica, sovente l’animazione se ne è infischiata con gioiosa anarchia delle leggi della natura e del super-io, celebrando anche sfacciatamente la sua assoluta libertà.
SVANKMAJER
Nel programma «Subversive Matter» è lo stesso universo degli oggetti a dotarsi di vita propria per ribellarsi contro gli scopi per essi previsti, contro la loro utilità, in sostanza contro l’umanità come accade in Jabberwocky del maestro ceco Jan Svankmajer. Nella sua visione surreale soldatini di latta combattono con bambole di porcellana, i coltellini si fanno male da soli, gli abiti ballano e ferri da stiro appiattiscono le figure tridimensionali. Analogamente gli oggetti inbizzarriti sovvertono la nostra esperienza di realtà anche in Glucose di Mihai Grecu e Thibault Gleize, come pure in Metalosis Maligna di Floris Kaayk dove proliferanti protesi metalliche prendono il sopravento sul corpo umano. Oppure sfuggono a ogni appartenenza a forme stabili con la metamorfosi incessante della claymation, ossia l’animazione di argilla o plastilina modellata, fino a librarsi in viaggi psichedelici come in CAS’L di Bruce Bickford.
ARTE DI STRADA
Indaga l’antagonismo artistico anche il programma speciale «We are hip hop», andando oltre l’elemento puramente musicale del hip hop per esplorarne cultura e stile di vita. La selezione di 6 film fra lunghi e corti propone uno sguardo ravvicinato sull’arte di strada e sui suoi riferimenti anche politici e sociali. Boombox collection: Boots Riley ritrae il rapper di The Coup che parla della sua musica e dei messaggi politici che contiene, propensione politica riscontrabile anche in This is what it is della filmmaker francese Léa Rinaldi centrato sul duo cubano Los Aldeanos, ostacolato in patria e insospettabilmente famoso nel resto delle Americhe. Forme di disobbedienza spettacolare hip hop metropolitana sono documentate da Street Art. The Ephemeral Rebellion di Anne Brüger e Benjamin Cantu da New York a Mosca, dalle Spontaneous Sculptures riprese a Berlino da Brad Downey o da Princess Hijab che dipinge hijab e burqa sopra i corpi seminudi dei cartelloni pubblicitari a Parigi. Anche l’artista di strada MissMe contesta l’immagine sociale della donna a Montreal a colpi di poster nel film di Mohammad Gorjestani MissMe: The Artful Vandal. In Martha & Niki Tora Mkandawire Mårtens, già vincitrice di Colomba d’oro a Lipsia nel 2012 per Colombianos, narra la storia delle street-style dancers svedesi Martha Nabwire e Niki Tsappos e del connubio con le loro radici ugandesi e etiopi.