Volti come finestre su paesaggi infiniti di memorie, su abissi di lotte che hanno combattuto e vinto razzismo e apartheid, che hanno inciso solchi ineludibili nella nostra Storia. Mentre ascoltano con l’ausilio di una cuffia l’audio del processo che cinquantacinque anni fa li vide alla sbarra innanzi al Sudafrica e al mondo, i loro visi sono diapason, occhi e rughe che si narrano, riavvolgono, vibrano. Ecco, ora guardano altrove, persi nei mari dei loro ricordi, ora si rivolgono in macchina, come a cercarci.
256 ore di registrazione salvate e nessuna immagine del processo che si svolse presso l’alta corte di Pretoria dall’ottobre 1963 per nove mesi: questo il nucleo anomalo e dirompente da cui si sono mossi Nicolas Champeaux e Gilles Porte per realizzare The State Against Mandela and the Others, tra gli Eventi speciali alla 59ma edizione del Festival dei Popoli (con la direzione di Alberto Lastrucci, a Firenze dal 3 al 10 novembre).
Nessuna immagine dunque, a fronte di un patrimonio sonoro inestimabile di testimonianze e suggestioni. Innanzi a questo immaginario aperto e tutto da esplorare, per incarnare il corpo visuale del film, i due registi hanno dialogato intanto con la presenza dei protagonisti sopravvissuti, alcuni tra quei nove “altri” dell’ANC (African National Congress), processati con l’accusato n.1: come Ahmed Kathrade (n.5), Denis Goldberg (n.3), Andrew Mlangeni (n. 10), ma anche con Winnie, moglie di Mandela (scomparsa lo scorso aprile), con la compagna di Kathrade, con i figli di Walter Sisulu e di Lionel Bernstein, altri due accusati, nonché con i legali della difesa George Bizos e Joel Joffe, e con il figlio dell’avvocato accusatore.
Ma per farci entrare nell’immagine mancante del processo, nel suo storico e purtroppo sempre attuale qui e ora, Champeaux e Porte hanno anche scatenato la creatività dei disegni animati di Oerd, dicotomico bianco e nero come nella separazione forzata allora imposta dal National Party in Sudafrica, coi suoi leader ammiratori di Hitler, bianco e nero inquietante e gravido di ombre, come spugnature angoscianti di colore, o quasi infantile nel descrivere con pochi tratti, graffi e sottrazione quegli eroi che affrontano tutto il processo con la convinzione di avviarsi a una condanna a morte, bianco e nero talvolta persino astratto e filosofico come in certe geniali invenzioni di Leo Lionni, come lotta universale contro quel potere deviato che vuole la sopraffazione di pochi sulla maggior parte.
E proprio la consapevolezza di essere la componente maggioritaria e incoercibile del Paese, di avere il sostegno della popolazione e dell’ONU, di aver raccolto per il mondo esperienze di resistenza, da quelle dei nostri partigiani ai ribelli di Algeria, nonché il punto di non ritorno di Auschwitz, insieme al coraggio assoluto e alla pervicacia di Mandela (“Ho sempre combattuto contro la dominazione bianca e ho sempre combattuto contro la dominazione nera …”, come ripeterà 27 anni dopo, alla sua liberazione nel ’90), alla sua inamovibile lungimiranza e a quella dei suoi compagni e a tantissimi altri aspetti che il documentario abbraccia con rigore e generosità, hanno fatto sì che Mandela “and the others” fronteggiassero egregiamente l’accusa di produrre caos e distruzione per il Paese, e hanno reso possibile e incancellabile una delle Storie cruciali dell’umanità. Una storia che fino a qualche mese fa ha vissuto negli occhi brillanti di Winnie Mandela, il gelo nel cuore alla sentenza eppure la consapevolezza di non poter smettere di alimentare la speranza per i suoi figli e per il popolo, o in quelli assorti e profondi dei ragazzi sudafricani di oggi, che si ritrovano neri e bianchi uniti ad ascoltarla. Mai smettere di farlo. Se ne faccia una ragione Trump che i nostri guardano in tv nell’ultima geniale inquadratura.
Parte indissolubile della lotta contemporanea di liberazione della Repubblica Democratica del Congo, Kinshasa Makambo di Dieudo Hamadi è tra gli altri Eventi speciali al festival. E mentre il Paese, con la sua storia dolorosissima di giogo coloniale e successive dittature, si sporge sulla paura che le elezioni, dal 2011 sempre rimandate, vengano beckettianamente di nuovo posposte (ora sono fissate per il prossimo 23 dicembre), e che il Presidente Kabila continui a perpetrare violazioni dei diritti umani (sul vissuto delle donne e sugli stupri di guerra, denunciati dal Nobel Mukwege, lo stesso regista si è soffermato nel magnifico Maman Colonelle, lo scorso anno al Festival dei Popoli), Hamadi sfodera un cinema giovane e acrobatico, spericolato nell’uso della camera, come un corpo e uno sguardo tra i tanti nelle azioni di rivolta a cui partecipano, ciascuno con la propria storia e la propria visione della lotta, i tre ragazzi al centro del film, Christian, Ben e Jean Marie. Vicinissima alle ferite e alle torture subite da quest’ultimo, alla solitudine di Ben, a lungo in esilio a New York, alle incomprensioni tra Christian e la madre, la regia segue dall’interno, come in un gruppo di pari e di amici, le loro azioni e i dubbi, le riflessioni politiche, l’UDPS (Union pour la démocratie et le progrès social) e il “Dialogo” proposto dall’oppositore Tshisekedi, pro e contro, il burro spalmato sul viso e le bottiglie di plastica per difendersi dai lacrimogeni. Da una giostra forsennata di immagini, la camera come gambe in fuga dai celerini, ai baratri della dissolvenza in nero, fino ai frame fissi dei morti e delle bare, le onde del cinema e dell’azione antagonista nel mondo, si specchiano così le une nelle altre in un unico inafferrabile presente.