Metti una sera in studio a Los Angeles. Devi incidere un paio di brani per uno show televisivo della BBC e per un livestream: «Perché non facciamo un pezzo dei Bee Gees?», proponi. «Ok, come lo arrangiamo?»; «Beh, come i Bee Gees!». Il che è un’opzione abbastanza naturale, se non fosse che tu sei Dave Grohl. Ma il leader dei Foo Fighters è anche una delle ultime rockstar capaci di dosare alla perfezione autorevolezza e humour, cosicché persino la goliardia più estrema ha sempre un certo appeal. Ecco allora la band trasformarsi in Dee Gees, in un trionfo di colletti inamidati e catenine su petti villosi; ecco un arcobaleno di poliestere avvolgere il vinile, in rigorosa edizione limitata. Hail Satin: l’omaggio al kitsch è quasi commovente.
Inciso in nonchalance al solito Studio 606 West per essere pubblicato in occasione del Record Store Day del 17 luglio, si tratta dell’ennesimo spin-off (dopo i supergruppi Proboto e Them Crooked Vultures) ideato da un Dave Grohl che dal cassetto degli anni Settanta estrae ciò che proprio non ti aspetti.

È STATA LA RECENTE visione del documentario How Can You Mend A Broken Heart (2020) di Frank Marshall — interessante biopic sulla vicenda artistica dei Bee Gees scandito dall’immancabile parabola di ascesa, successo e declino — a rinverdire la sua passione per i fratelli Gibb. Ma non finisce qui: in una recente intervista, l’ex batterista dei Nirvana ha sottolineato come i più grandi disco-drummer lo abbiano influenzato finanche per Nevermind. «Viene tutto dalla disco, niente di più, ma nessuno fa mai questa connessione». Tranne i diretti interessati, vedi Tony Thompson degli Chic: «Venne da me per un barbecue e gli dissi: “Amico, voglio ringraziarti perché ti devo davvero molto, ti ho plagiato per tutta la vita”. E lui: “Sì, lo so”!». Si inserisce un po’ nello stesso clima, peraltro, il remix di Making A Fire (dal recentissimo Medicine At Midnight) affidato a Mark Ronson, il quale ha rimontato il brano portando in primo piano il groove percussivo.
Con Hail Satin, i Dee Gees alias Foo Fighters aggiungono un nuovo capitolo alla saga degli alter-ego discografici. Progetti il più delle volte destinati a risolversi in un unico episodio, la cui funzione principale è quella di concedere all’artista la possibilità di esprimersi in uno stile apparentemente inconciliabile con la propria consolidata identità. È la sindrome di Sgt. Pepper, insomma, felicemente diagnosticata nelle innumerevoli metamorfosi registrate dalle cronache musicali degli ultimi decenni. Da Buckshot LeFonque, controfigura hip-hop di Branford Marsalis, al doppelgänger country di Leon Russell, Hank Wilson; da Camille, gemella siamese di Prince, alle innumerevoli personificazioni dei Green Day. In molti casi, l’alter-ego è un’autentica valvola di sfogo per diluire le pressioni dello show-biz tornando a suonare musica per divertimento. Il che rende quasi plausibile Mariah Carey in veste di chitarrista grunge con i Chick.

PER CHI VOLESSE perseverare nella lettura freudiana, potremmo dire che Hail Satin è ancor più bipolare degli illustri precedenti, mostrando sulla stessa medaglia entrambe le facce dei Jekyll/Hyde di turno. Lato A tutto Dee Gees, esilaranti eppur filologici nel riproporre in copia conforme una manciata di hit della famiglia Gibb: You Should Be Dancing, Night Fever, Tragedy, More Than A Woman, Shadow Dancing. Ma sul lato B i Foo Fighters tornano padroni di se stessi, offrendo a pochissima distanza dall’uscita un’edizione «live» — ma pur sempre in studio — di Medicine At Midnight, che da qualche settimana affronta il vero rodaggio su strada.
Tutto lascia presupporre che anche dal vivo si potrà assistere a sporadici cambi di personalità, con i power chord a lasciare scampoli di palco ai cori in falsetto. Ben altri cori, meno intonati, si sono levati in occasione del primo live post-lockdown del 15 giugno scorso, con ingresso saggiamente riservato agli spettatori vaccinati. A protestare, un manipolo di no vax guidati dall’attore Rick Schroder: l’amico Ricky, oggi cinquantunenne, ha accusato il coetaneo Dave di fomentare la discriminazione. «L’ignoranza non conosce limiti», ha scritto. Da un certo punto di vista è anche vero.