Quando sedici anni si sono imbarcati nell’impresa non tutto era così scontato. Riprendere standard classici fondendoli con il pop d’autore in un arrangiamento da trio jazz, poteva rivelarsi un progetto tanto straordinario nelle intenzioni quanto fragile nella resa finale. Invece i Doctor 3 ovvero Danilo Rea, Enzo Pietropaoli e Fabrizio Sferra quell’idea così pervicace l’hanno portata avanti fino al 2009 attraverso sei dischi e tour applauditissimi in tutto il mondo.

Cinque anni fa la decisione di mettere a riposo «il marchio», una sosta che è stata utile per ritrovare nuovi stimoli e maturare altre esperienze. Eccoli quindi rimettersi in gioco con un disco dalla copertina rossa dove campeggia il loro nome, composto da dodici brani scelti – stavolta senza medley – perlopiù nel repertorio dei 60 e 70. Non mancano le sorprese, l’apertura con i Bee Gees in climax febbre del sabato sera con la ballata How deep is your love e un Bowie d’annata nella rilettura minimale di Life on Mars.
«Perché ci siamo ritrovati? – spiega Rea che insieme agli altri due compagni presenta l’album al Parco della musica co-produttore del l’album insieme a Jando Music – ci mancava quella complicità che si crea sul palco quando a suonare sono non solo dei professionisti, ma degli amici. E poi perché volevamo ritornare all’esperimento Doctor 3, un gruppo che ha cercato in maniera precisa di coniugare la musica degli anni settanta con quella che ci ha formato, e soprattutto con l’improvvisazione.».

Agli inizi non sono mancate le critiche: «Il nostro primo disco poteva sembrare molto rischioso: lo presentammo alla Town Hall di New York dove fummo accolti calorososamente ma al critico del Ny Times, che pure ci apprezzò, non andava giù la cover di Your Song di Elton John, la definì cheap, un pezzettino. Giusto per far capire come fosse difficile allora far accettare questo tipo di mix».
Rispetto al passato la modalità di esecuzione cambia radicalmente; la pratica dei soli e delle parti consolidate tra i musicisti qui è affidata all’improvvisazione.

Tutti sono coinvolti nella (ri)nascita dei vari pezzi… «Partiamo dal tema ma nessuno ha un ruolo da leader – sottolinea Fabrizio Sferra – l’elemento principale è stato l’aver evitato la tradizionale successione di soli, una caratteristica del jazz: un assolo seguito da un altro assolo e così via. No, qui la musica tende a essere sempre molto tematica e condotta collettivamente». Un gioco quasi un interplay fra i tre musicisti che Enzo Pietroapoli riassume così: «Uno scambio di ruoli, assoli che sembrano temi e temi che sembrano assoli. Ci divertiamo a mescolare le carte. Un’altra caratteristica rispetto ai dischi precedenti è che ogni traccia non è composta da uno o tre quattro brani diversi riuniti, bensì di canzoni distinte».

Un lavoro fatto di discussioni e scelte: «siamo partiti con delle tracce, molte proposte dalla Jando, poi alla fine abbiamo fatto tutt’altro» con qualche divergenza di opinione. «Credo – spiega Rea – che alla musica moderna manchi l’immediatezza di brani come Life on Mars. Pur suonati solo chitarra e voce hanno una linea melodica e armonica talmente potente che guidano il musicista all’interno dell’improvvisazione. Con le band e i solisti di oggi non è così, bisogna sempre seguire un arrangiamento. Avevamo provato un brano di Eminem, bellissimo nell’originale, ma senza arrangiamento era impossibile seguire armonie e note».

«Ma questo non vuol dire – conclude Pietropaoli in risposta a Rea – che la musica moderna sia meno bella di quaranta, cinquant’anni fa. Ancora oggi si trovano artisti che compongono in maniera valida e originale».