La condizione della pandemia sta imponendo da molti mesi ai festival di tutto il mondo una forzosa, ma non per questo infruttuosa riflessione sulla propria natura, sul proprio ruolo, sulle proprie forme e sulla reale necessità del proprio intervento. Uno dei festival che meglio e di più sembra aver preso in carico questa sfida tanto concreta è Doclisboa che per la sua diciottesima edizione ha presentato al pubblico una forma del tutto inedita. Messa da parte la dimensione competitiva delle sezioni a concorso, ha ripensato il suo programma come un luogo di riflessione e d’incontro esteso in un tempo e in uno spazio diffusi. Sei sezioni e due programmi a tema – più una nebulosa di confronti, dibattiti e altre attività on line – che hanno lanciato le loro prime provocazioni nei giorni a cavallo tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre e che però si preparano a spargere e a spingere più in profondità i loro semi fecondi per i prossimi sei mesi: ognuna delle sei sezioni dispiegata monograficamente per la durata di una settimana fino alla fine di marzo più i «distaccamenti» digitali delle due retrospettive.

Al centro di questo arcipelago di pensieri e immagini svettano due piccoli continenti: «Corpo de Trabalho – Body of Work», curato da Amarante Abramovici e realizzata in collaborazione con l’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro (EU-OSHA) e «A Viagem Permanente – O Cinema Inquieto da Geórgia /Permanent Travel – Georgia’s Restless Cinema» curato da Marcelo Felix e realizzato rinnovando la lunga alleanza con la Cinematica Portuguesa e in collaborazione con il Georgian National Film Center. Tutti e due i programmi sono costruiti nelle due fasi della retrospettiva e della rassegna sul cinema contemporaneo, tutti e due condividono – nella tradizione del festival, quest’anno rafforzata dalle ombre e dagli ostacoli prodotti dallo spandersi del contagio – una comune istanza politica che si condensa prima di tutto nel costruire discorsi rigorosi di servizio a un pubblico vario e vasto. Lo fa Marcelo Felix attraversando – senza distinguere tra cinema a soggetto, documentario, animazione – quasi per intero la lunga storia del cinema georgiano, dalle sorprendenti ed eccitanti apparizioni del muto degli anni Dieci, ancora nell’epoca dell’Impero russo, fino alle più recenti produzioni paneuropee, riflessive, melanconiche, austere.

Non tutti i nomi più noti sono rappresentati, e a tutti quelli compresi nella selezione è concesso lo spazio appena sufficiente a segnalarsi al pubblico, evitando le utopistiche tentazioni enciclopediche in favore di un ben più affascinante racconto trasversale. Il curatore sceglie di affiancare alcune figure ampiamente canonizzate – Kalatozov, Abuladze – ad autori altrettanto autorevoli ma meno accessibili – Nikoloz Shengelaia, Mikheil Kobakhidze – in un collages degno dei pittoreschi montaggi di Parajanov – rappresentato dal suo corto sul pittore Pirosmani – ordinato per temi e suggestioni.

Più geometrica e laconica ma anche più teorica e precisa, la sezione di Amarante Abramovici lascia da parte il birignao delle epiche operaie, costruendo un affilatissimo dispositivo a due fasi che si muove partendo dal confronto incrociato tra alcuni autorevoli sguardi del passato (Cavalier, Farocki, Ivens, Imamura e altri ancora) e le consonanti ancorché disparate osservazioni di giovani filmmaker del presente. Tutti e due i curatori si son trovati costretti a ragionare e scegliere anche in vista della messa a disposizione per la visione in streaming in rete di molti dei titoli delle loro sezioni, decidendo di privilegiare di volta di volta la conoscenza dell’ignoto o l’integrità dell’incontro sul grande schermo.

Marcelo Felix
Giusto e inevitabile dunque trovare il tempo per fermarsi, incontrare i due curatori – anche se solo attraverso lo schermo di un computer – e ascoltare le loro parole, a cominciare da Marcelo Felix.

La sezione dedicata al cinema georgiano è una vasta esplorazione di un orizzonte cinematografico solo in piccola parte accessibile. Come è iniziato e come è stato condotto questo viaggio?

La Georgia del cinema è stata una scoperta che ho fatto in Italia, a Pordenone, dieci anni fa.
Sono partito da quel che conoscevo meglio, il cinema muto dell’era sovietica. La ricerca è stata particolarmente complessa perché molti dei film erano in copie non accessibili in quanto non restaurate. E poi moltissimi dei film di produzione georgiana sono ancora oggi conservate negli archivi russi. Ci siamo rivolti alla Goskino ma non è stato semplice perché nel frattempo era scoppiata la pandemia. Molti dei film che avrei desiderato inserire in realtà o sono da poco entrati nel processo di restauro o sono ancora negli archivi, in attesa di essere messi in lista. Molti dei film in programma non sono mai stati proiettati prima in Portogallo, nonostante abbiano avuto una «carriera distributiva» di tutto rispetto durante il periodo della loro prima distribuzione. Questo vale soprattutto per i film muti. Per la maggior parte dei film d’animazione georgiani d’epoca sovietica invece queste del Doclisboa sono le prime proiezioni al di fuori del blocco sovietico.

Sarebbe sbagliato dire che la maggior parte del cinema georgiano è ancora oggi conservato negli archivi russi?
No, di sicuro è così per quel che riguarda la maggior parte della produzione sovietica, dai primi Venti fino ai tardi Ottanta, inizio Novanta. Ci vorrà del tempo, il processo di restauro e restituzione dalla Russia durerà parecchio.

Qual è stato il ruolo del cinema georgiano nel cinema europeo e sovietico nel passato?
La generazione che lavorò da Krushev in poi ebbe una grande parte in Europa nell’aprire la strada al cinema sovietico in Europa. In modo diverso e in tempi diversi Abuladze e Kalatozov con i propri film e i riconoscimenti che si guadagnarono furono al centro di una grande attenzione da parte del pubblico europeo e più in generale esterno al blocco sovietico. Anche in prossimità al collasso dell’Unione Sovietica c’erano registi georgiani che – seppure radicati fuori dalla Georgia – raccolsero un grande successo di pubblico portando all’estero una proiezione del lato più «di tendenza degli immaginari sovietici.

Invece che sciorinare i molti titoli secondo un sistema cronologico, il programma si articola in sottosezioni che sembrano quasi i capitoli di un romanzo storico.

È stato necessario per evitare un’impostazione pedissequamente cronologica. I temi possibili erano molti, ho scelto di basarmi sulle impressioni personali; sull’onnipresenza della musica e della danza nei film; la violenza, anche quando, come succede spesso, si tratta di violenza implicita, psicologica, ellittica, ha fornito materiale per due sottosezioni; ma il centro di questo lavoro sulla strutturazione interna del programma è stato l’impatto della rivoluzione nel Caucaso, la persistenza delle tradizioni e le dinamiche all’interno delle diverse etnie della regione. Diversi dei film nella selezione raccontano di genti diverse dai georgiani che vivevano nella stessa zona e che furono espulsi. Eliso parla della campagna dell’Impero russo del 1864 che spinse fuori del paese molti ceceni: interessante perché è una sorta di critica all’ancien régime da parte dei registi neosovietici a proposito di questa pulizia etnica, per usare un anacronismo linguistico. Questo genere di operazioni era presentato come marca distintiva dello zarismo, in opposizione netta a quello che facevano i sovietici che invece sarebbero stati nei vari territori a garanzia e in difesa delle popolazioni oppresse e delle vittime del sottosviluppo. Questa condanna contro l’idea di cacciare fuori dai confini della propria patria gruppi etnici e strati della popolazione con mezzi ingiusti e violenti si trova spesso nei film degli anni Venti e Trenta, esposta con una certa fiera esplicitezza. Costruire queste sottosezioni e percorsi interni è stato un modo per mostrare contrasti e continuità nei film che attraversano tre periodi: il muto, il periodo del cinema sovietico del Disgelo sotto Krushev e gli ultimi trent’anni d’indipendenza.

In che modo il cinema georgiano contemporaneo conserva e preserva la tradizione, l’eredità del passato e apra, in altra direzione, una via nuova al tempo che viene?
È una domanda interessante. La produzione georgiane degli ultimi dieci quindici anni è la proiezione, il risultato della cultura georgiana, in patria e all’estero. L’opportunità di fare film si centra intorno all’idea strategica di continuare la tradizione di serietà e accuratezza tecnica che è un’eredità dell’era sovietica. Dico spesso che per il cittadino medio era un bello sforzo economico potersi permettere il cinema come mestiere, qualcosa che ha spinto l’idea che il filmmaker fosse qualcuno specificamente formato e portato a pensare il proprio lavoro come naturalmente innervato nella società. Questo è rimasto vero anche nel contemporaneo: il regista è pensato come professionista ma anche come artista e intellettuale, con delle significative differenze rispetto a come questo veniva inteso negli anni Sessanta e Settanta.

Oggi i filmmaker sanno trovare un po’ di distanza in più riaspetto a quanto succedeva nel caos degli anni Novanta, e mettersi in prospettiva e provare a trovare il senso di un’empatia con l’altro e con l’alterità. E questo è per me uno dei tratti più significativi del cinema georgiano contemporaneo: l’apertura all’idea che è il momento per superare le passioni e l’animosità tra le parti, per smettere di concentrarsi su chi ha torto e chi ha ragione e aprire una fase di perdono reciproco e trovare il modo di iniziare un ragionamento e una discussione condivisa. È una stagione di nuova maturità che riflette la possibilità per gli autori contemporanei di non essere bloccati nel passato, l’opportunità di analizzarlo in un modo più sofisticato e contemporaneamente di essere in grado di fare cose diverse, di fare film su questioni individuali rispetto alle quali la società resti uno sfondo. Il punto non è solo non vittimizzare la Georgia ma non lasciare che le persone siano vittimizzate dalla Georgia, come nel caso delle minoranze. Ci sono molte rilevantissime registe donne nel cinema georgiano contemporaneo e si tratta proprio di dare finalmente voce a segmenti della popolazione in passato trascurati.

(Per dieci giorni ci saranno altri film on line. Eliso, My grondmother, The youth and the leopard, Dede, Magdana’s Donkey, Ancient georgian songs, Love at first sight, Some interviews in personal matters. ndr).

Amarante Abramovici
Chiediamo ora a Amarante Abramovici i termini delle scelte del suo programma «Corpo de Trabalho – Body of Work». Come avete avviato il lavoro di ricerca e raccolta dei titoli? Focalizzandovi sulla rilevanza o l’atteggiamento degli autori o centrando l’attenzione sui film, sui temi e le storie raccontate?
Abbiamo ricostruito una sorta di canone di film storici sul lavoro, ma di essi nessuno è sopravvissuto nella versione finale del programma. Con il quale abbiamo costruito un canone nuovo, diverso. Poi ci siamo concentrati su due questioni: che cosa definiamo come «lavoro» e in che modo il lavoro definisce noi come persone. Il primo titolo è stato forse Reprise di Hervé Le Roux, che è un film in sé retrospettivo e che ha poi fornito molti degli elementi alla base del programma: l’idea che puoi rifiutarti di lavorare; la figura di una donna lavoratrice osservata in un certo passaggio di tempo che ci ha riportato alla questione di come la posizione delle donne è cambiata nel Ventesimo secolo; infine la traccia memoriale di una classe operaia che non abbiamo più, almeno non nella stessa maniera.

Il titolo nella sua doppia versione portoghese e inglese sembra in realtà giocare con un significato multiplo.

Penso sia venuto prima l’inglese. Ho lavorato molto come traduttrice quindi nel mio caso le due versioni vengono quasi contemporaneamente. C’è prima di tutto l’idea che l’insieme di tutti i film costituisca un «corpo di lavoro», e un corpo di lavoro problematico: uno studio immaginario sul lavoro negli ultimi 50 anni, provocatorio, spero. Poi l’idea di come il lavoro interessi e colpisca il nostro corpo, riguardando i film di Cavalier e di Jerome Belle. Cavalier si occupa precisamente di come il lavoro abbia modificato il corpo delle donne che riprende. Belle invece riprende la danzatrice il corpo della quale è stato totalmente scolpito dal suo lavoro ed è quello a decidere quando la danzatrice dovrà porre fine alla sua attività. E infine i film sulla prostituzione, che sono venuti molto presto e che portano dentro di loro l’idea che del tuo corpo puoi vendere tutto tranne che il sesso. Anche se sul sesso venduto si fonda il «lavoro più antico del mondo».

Non è comune trovare negli eventi culturali in questi anni, soprattutto nei festival di cinema, un impegno tanto lucido e pragmatico nel fare qualcosa che si pensa come intervento politico.

Quando abbiamo iniziato la selezione ci siamo ritrovati bloccati a casa e il lavoro all’improvviso è diventato qualcosa di diverso. Penso che tutto il programma sia stato molto influenzato da questa sensazione che le nostre vite stessero cambiando in un modo tanto radicale. Per metterla in termini semplici: stiamo attraversando la seconda ondata, ci dicono che siamo tornati a marzo scorso e allo stesso tempo, se guardi al programma contemporaneo, improvvisamente capisci quanto ci troviamo in una bolla, concreta e mentale, di quanto viviamo in un posto speciale nel mondo che spesso ha un rapporto molto sottile con quello che succede davvero là fuori. Una vicenda veramente violenta.

Forse la cosa davvero difficile nel documentario contemporaneo è trovare un gruppo di film di autori diversi che condividano però una certa lucidità politica legata a una rilevante consapevolezza estetica.
Sì, oggi non esistono più gli attivisti impegnati che c’erano nei Settanta e negli Ottanta. Se lavori in quella direzione, oggi riprendi e metti subito on line perché vuoi cambiare il mondo nell’immediato. Sì, penso che effettivamente in questa selezione – che raccoglie principalmente lavori di giovani registi – si trovi uno sguardo deciso e consapevole su cosa significa fare un film. Allo stesso tempo non sono mossi da un discorso chiaramente politico così come sarebbe successo in passato.

Ed è qui che la coerenza della vostra selezione colpisce: nel riuscire a trovare, nonostante tutto, questa diffusa consonanza.
Penso sia perché si tratta di lavoro. Molte questioni hanno degli aspetti evidentemente politici, ma quando prendi in esame il lavoro nel mondo di oggi lo scopri come luogo politico definitivo. Oggi, in piena pandemia, tutto il mondo è diviso politicamente secondo il lavoro: chi riesce a lavorare e chi no, chi vive del lavoro degli altri e chi no. In alcuni film non sono certa sia una dichiarazione politica da parte del regista, penso sia piuttosto un’osservazione politica: se prendi una camera e volgi lo sguardo verso i lavoratori e i luoghi di lavoro, la politica entra in subito in gioco, è inevitabile. Il lavoro è diventato la più grande questione politica. O forse lo è sempre stata, lo abbiamo semplicemente dimenticato per un po’ e ora è tornato a essere ovvio.