Un festival a basso budget e a alta qualità. È questa la scommessa di Doc Lisboa, il festival del documentario (molto contaminato) che «occupa» la capitale portoghese in questi giorni. Più sale, tra sede storica del Culturgeis, la sala Sao Jorge e quelle della Cineteca, sparse nella città, moltissimi ospiti, un pubblico giovane e variato; studenti e cinefili di «vecchia data» che si dividono le visioni secondo la proposta. Può così capitare di rimanere fuori all’inizio del pomeriggio da uno dei film della retrospettiva dedicata a Peter Watkins, il molto premonitore Punishment Park (1970) in cui il regista inglese – è nato a Norbiton nel 1935 – negli anni 70 immaginava un’America senza stato di diritto, in cui i prigionieri politici attivisti african americani, militanti i movimenti contro la guerra in Vietnam, giovanissimi cantautori di protesta (una specie di Joan Baez super radicale) venivano sbattuti nel deserto, picchiati, torturati e uccisi dalla polizia.

Un «gioco» – dice una di loro – in cui si vince o si muore. Qualcosa di molto attuale pensando a Guantanamo Bay e altre prigioni, e anche una «lezione» di cinema politico come invenzione di forme provocatorie e spiazzanti (in tv oggi una situazione del genere potrebbe diventare un reality molto radicale). Insieme alla riflessione sul cosiddetto «mockumentary« di cui Watkins è precursore, sulla dialettica conflittuale tra messinscena e realtà e sulla manipolazione mediatica prima della rete che spingendola all’estremo rende il suo metodo di indagine rispetto alla «verità» possibile delle immagini ancora più attuale.
Ci sono poi gli «affezionati» del cinema cubano rivoluzionario (curata da Michael Chanan) che sempre nelle prime ore del pomeriggio non perdono una proiezione dei film dell’Istituto del cinema voluto a Cuba da Fidel Castro. Come il documentario di Santiago Alvarez Cerro Pelado sui Giochi olimpici nel Centro America e Caraibi a San Juan, in Portorico nel 1966, e il tentativo di boicottare la presenza di Cuba messo in atto dagli Usa, con in finale l’arrivo di Castro che saluta gli atleti vittoriosi. Dove non si censura comunque sulla sperimentazione visuale cercando di filmare plasticamente gli atleti. Cerro Pelado, dove la nave cubana viene bloccata, diventa il simbolo di una resistenza storica all’influenza americana, ancora più netta nel Paese che ospita i Giochi, schiacciato da miseria, analfabetismo, violenza poliziesca, razzismo.

La direzione – Davide Oberto e Cintia Gil – e il gruppo di lavoro sono felici dei risultati, le sale sono sempre affollate anche a sera tarda nella settimana, gli ospiti sono contenti, la partecipazione è alta.Ogni sera per chi ha voglia di festa ci si ritrova in un magnifico Palazzo nel Barrio alto, atmosfera festiva aperta non robe tristemente da vip…
Sarà il segreto anche di un’educazione al cinema più diffusa che crea comunque un pubblico? La Cineteca di Lisbona è fantastica (paragonata alla situazione romana siamo su Marte), programmazione in diverse sale, da Rossellini (la fotografia di Adriano Aprà all’ingresso ne accompagna la presentazione) al cinema francese classico, a quello portoghese, il che permette alle persone giovani, molti gli studenti, una conoscenza e un’abitudine anche condivise da noi inesistenti. E la costruzione di un gusto (come di-mostra anche il cinema portoghese).
Negli anni Ottanta, per fare un esempio, capitava anche che uno dei critici di punta, tra i massimi studiosi del cinema portoghese come Augusto Seabra – suo uno dei primi libri pubblicati in Italia sull’argomento in occasione di una monografia sul cinema del Portogallo alla Mostra di Pesaro – realizzasse per la televisione una lunga intervista con Manoel De Oliviera, allora «giovane» cineasta pieno di progetti. Manoel De Oliveira: 50 anos de carreira (1981, nella sezione New Visions) firmato da Seabra insieme a Josè Nascimento è un documento straordinario, che ci riporta nella casa del regista di Porto, la stessa aperta nel suo film «postumo», Memorie e confessioni, ma da un’altra prospettiva. Entriamo ancora nel suo cinema pur non seguendo la prima persona narrativa del regista ma le risposte alle domande che nascono sul suo cinema. A volte si ha l’impressione che De Oliveira li prenda un po’ in giro. Alla domanda sulla religiosità dei suoi film sorride: «La religione fa parte della realtà e io voglio raccontare a realtà».

Sembra incredibile che parli di «realtà» tra l’altro eppure per lui il cinema è questo: tutto è reale,le storie, le scenografie, i costumi tranne i personaggi a cui danno vita gli attori. Il film va avanti nella filmografia, entra sulla lavorazione di Amor de perdicao, criticatissimo in Portogallo, dialoga col cineasta in uno scarto che è quello della sua poetica mai prevedibile. Due i film italiani nel concorso internazionale – 18 titoli tra cui sette anteprime: Atlante 1783 di Maria Giovanna Cicciari, una nuova versione rispetto a quella presentata alla Sic di Venezia, e A noi ci dicono di Ludovica Tortora de Falco, adolescenza allo Zen di Palermo che scorre tra appuntamenti mancati, innamoramenti che durano un giorno, partite di pallone, il mare, il cellulare. Fabrizio il protagonista corteggia Aurora, lei sorride, ammicca, un po’ lo provoca ma poi cambia direzione e sceglie l’amichetto coi capelli lunghi del ragazzino. «Il cuore è uno zingaro» dice la canzone, così una serata in pizzeria diventa per Fabrizio la fine del suo amore, e la mattina al mare l’evidenza che la ragazzina ormai ha scelto l’altro. Il lavoro è stato sviluppato in un laboratorio, e questo permette alla regista di costruire coi suoi personaggi una relazione di quasi intimità anche se nelle case dei ragazzini entriamo poco, la macchina da presa aspetta fuori, e gli adulti genitori o quant’alro rimangono sempre fuori dall’inquadratura. Scelta o necessità che sia. Come nel quadro non entrano la mafia, la criminalità, l’abbandono che contornano quasi tutte le immagini filmate allo Zen – se non quanto affiora in strade scassate e bus che non passano mai comuni a ogni periferia: vicina ai ragazzini la regista filma l’adolescenza, le lunghe giornate fatte di niente, i desideri vaghi e confusi, il rito del quotidiano di un’estate. Quasi una sfida.