La prevista audizione dei vertici della Rai sul piano industriale 2019-2021 presso la commissione parlamentare di vigilanza è slittata. Peccato. Avremmo, forse, capito qualcosa di più rispetto alla miriade di slide di un testo già approvato a maggioranza dal consiglio di amministrazione e rimasto curiosamente avvolto nel segreto fino all’arrivo alle Camere. Bei mallopponi da studiare e approfondire. Tuttavia, vale sempre la considerazione del compianto Alfredo Reichlin, in base alla quale un piano di vero cambiamento è breve e secco, e non lungo e complesso.

Tuttavia, anche per sollecitazione di un’iniziativa promossa ieri alla Casa del cinema di Roma dall’associazione «RinasceRai» (ospite Giovanni Minoli) lanciata da un gruppo di professionisti del centro di produzione di Napoli, è tornato di attualità finalmente il tema del film-documentario. Non si tratta di un settore periferico o marginale, bensì di uno dei punti-chiave del cinema e dell’audiovisivo moderni: fondati sull’uso e sul ri-uso delle immagini, sul racconto della realtà e sull’intreccio creativo con la fiction. Uno dei momenti più alti del cinema italiano, come è stato evidenziato dai numerosi riconoscimenti internazionali.

La novità sta nella decisione di istituire una specifica direzione «RaiDoc», come del resto è previsto dall’articolo 7 del contratto di servizio 2018-2022. E come fin dal 2004, in un’affollata iniziativa in una sala del senato, un folto e qualificato gruppo di personalità volle indicare. Ricordiamo tra i promotori – tra gli altri – Sergio Zavoli, Ettore Scola, Renato Parascandolo, Giuseppe Giulietti, Stefano Mencherini, Filippo Vendemmiati, Santo Della Volpe, Giovanni Minoli. Dopo vari tentativi e definizioni rimaste alquanto generiche negli atti precedenti, ora il documentario sale decisamente in serie A.

Speriamo che non sia un fuoco fatuo, perché in verità proprio simile modello culturale è la metafora della trasformazione della Rai in una effettiva impresa di servizio pubblico. L’azienda di viale Mazzini è da sempre un ircocervo, un ibrido, in cui convivono anime volte allo «…sviluppo di una società inclusiva…» (articolo 2 del citato contratto di servizio) e dinamiche commerciali non dissimili dagli «spiriti animali» del mercato privato.

Bene ha fatto in queste ore l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni a varare le linee guida contro lo strapotere degli agenti delle «star». Sono loro a decidere parti cospicue dei palinsesti. Insomma, la questione dei docu-film è come una metafora di una scelta, la premessa di una strategia pubblica coraggiosa.

È una sfida contro le banalità trash di certi programmi, che inquinano il valore di bene comune della Rai. Quando si osa nella e con la qualità arrivano sorprese positive pure negli ascolti, come dimostrano le migliori serie televisive spesso colte ed impegnate, o trasmissioni di approfondimento controcorrente. Nel dibattito di ieri è emersa l’ipotesi di collocare la direzione Doc a Napoli, dove c’è il rischio di un deperimento della sede.

Chissà. Certamente, però, è importante riaprire la riflessione sulla valorizzazione di un intero comparto dell’industria culturale. Ovviamente, per una Rai volta a ripensarsi seriamente servirebbe una legge adeguata, che la svincoli dal potere politico e ne faccia – attraverso un’autonoma fondazione – un luogo di riferimento per la crescita civile.

In verità, giacciono da anni in parlamento progetti utili (Tana De Zulueta, Zaccaria, Gentiloni, Fratoianni e Civati, ad esempio). Si rintracciano nei siti istituzionali: basta un click.