Per il Corriere della Sera Goffredo Parise scrisse racconti, elzeviri, saggi letterari, reportage (dal Biafra, dal Laos, dal Cile, pubblicati a metà anni settanta da Einaudi in un volume intitolato Guerre politiche e riproposti nel 2007 da Adelphi). Sulle stesse pagine, nel biennio ’74-’75, tenne anche una rubrica, intitolata «Parise risponde», che gli permetteva di condurre un dialogo con i lettori del quotidiano, un po’ come fecero negli stessi anni – su altre testate – ad esempio Bianciardi e Pasolini, a dimostrazione del ruolo sociale, ma potremmo dire didattico, riconosciuto a quei tempi agli scrittori. Ogni settimana, Parise traeva spunto dalla lettera che giudicava più interessante per prendere posizione su alcuni problemi particolarmente sentiti dagli italiani, come la democrazia, il divorzio, l’aborto, la tutela dell’ambiente, l’influenza della televisione. In verità, come spiega egli stesso, lo faceva «per curiosità umana», voleva conoscere e «incontrare» gli italiani, sapere quello che pensano e che cosa chiedono al Paese.

Ora Silvio Perrella ha raccolto alcuni di questi articoli in un libriccino intitolato Dobbiamo disobbedire (Adelphi, pp. 76,00, euro 7,00). Ne emerge un Parise lucido, equilibrato, estremamente attento alla trasformazione del Paese. A coloro che elogiano il consumo, l’avere, ribatte che «il rimedio è la povertà». A suo parere, «tutti i nostri ideali sembrano concentrati nell’acquisto insensato di oggetti e di cibo», questa «è oggi la nostra ideologia» ed «ha ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia». Si può resistere soltanto opponendole un’altra «ideologia», politica ed economica, «la povertà». Che non significa miseria, ma acquisto del necessario, rifiuto del superfluo. È, questo, il perno di un sistema etico che tiene lontane le persone dal rischio di un degrado morale di cui sono un segnale anche l’ambizione dei politici e il linguaggio televisivo.

A questo proposito osserva: «Quelli che facevano i factotum, i fattorini, i portabagagli dei deputati, che a scuola erano degli asini incredibili, e non per distrazione, ma per nascita, quelli hanno fatto molta carriera politica». Più potenti di un deputato, o di un senatore, perfino di un ministro, «girano a Roma intorno alla Democrazia cristiana, non so in quali uffici». Dei segretari di partito gli è bastato guardare le facce in tv in occasione del dibattito conclusivo sul referendum abrogativo del divorzio per poter dire – facendo leva sulla cultura contadina – di chi ci si può fidare e di chi no. I «politici», i furbi, gli snob, lo irritano, lo annoiano, parlano un altro linguaggio: «So, proprio per queste ragioni di linguaggio, cioè per ragioni stilistiche, che essi sono alla fine», sostiene. Così come è profondamente convinto che «la difesa dell’ambiente è, in Italia, causa persa». Quanto alla televisione, che nell’educazione dei giovani sembra sostituire la scuola, «si occupa dell’immagine dell’uomo e, nel suo attualismo, insegna una materia di tutto riposo: l’obbedienza e l’imitazione».

La rubrica durò meno di quanto Parise auspicasse. È lui stesso a chiuderla, motivando la scelta con la banalità e la ripetitività dei quesiti dei lettori: «Le lettere che arrivano sono sempre quelle e tendono soltanto a una cosa: all’obbedienza e alla servitù. L’idea dello Stato non c’è, la realtà dello Stato nemmeno, ci sono proteste, anzi ‘lagne’ personali, paesane, regionali, o sdegni apparentemente nazionali». La sua delusione è grande, non è quanto si aspettava e, alla fine, dà ragione a Cesare Garboli, che gli aveva detto: «Tu rincorri il sogno di una società italiana che non c’è; e allora la inventi».