Francesca Chiavacci, come andrà a finire questo congresso? Per le prima volta ci sono due candidati alla presidenza dell’Arci, e c’è chi ha paura di una divisione non facilmente ricomponibile. «Invece andrà a finire bene. Per tradizione siamo un luogo di sperimentazione, lo dimostreremo anche questa volta».

Quali sono le differenze di impostazione organizzativa nella sua visione dell’associazione, rispetto a quelle di Filippo Miraglia?

Secondo me dobbiamo recuperare il senso del ‘ritrovarsi insieme’, non solo nei circoli ma anche in ogni altro spazio possibile, per contrastare quell’individualismo, sempre più diffuso, che però finisce spesso e volentieri per diventare solitudine. Siamo l’unica associazione, laica, che ha un peso sociale molto forte, operando per giunta con modalità eterogenee. Allora dobbiamo poter incidere di più, anche sull’agenda politica, in particolare nella difesa dell’associazionismo. Interrompendo le modalità che negli ultimi anni ci hanno molto penalizzato. Io non voglio che l’Arci sia finanziata. Ma agevolata, ad esempio sulle esenzioni, sì. Senza complessi di inferiorità, e continuando a promuovere buone pratiche culturali, sociali e a sostegno dei diritti civili.

Il suo documento ha per titolo ‘Con i circoli in testa’. Cosa sottintende questa formula?

Negli ultimi anni, territori anche molto diversi fra loro si sono sentiti ‘poco raccontati’, poco rappresentati all’esterno. Di qui la preoccupazione che l’Arci, che è storicamente un presidio della sinistra nel paese, diventi poco a poco un associazione di opinione, sul modello di Amnesty International. Questo vuol dire avere un ottimo gruppo dirigente, e stare nella rete. Ma senza quel radicamento territoriale che è nel dna dell’associazione. E che ora più che mai, negli anni di una crisi durissima, deve essere sostenuto e potenziato. Dietro il logo Arci ci devono essere delle persone, sempre».

Chi sta sostenendo, e perché, la sua candidatura?

Ho deciso di candidarmi sulla spinta di circoli della Toscana, dell’Emilia Romagna e del Piemonte. Ma non intendiamo certo imporre un modello, e in un mondo variegato come quello dell’Arci sarebbe peraltro impossibile farlo. Piuttosto vorremo far pesare quella ‘territorialità’ che secondo noi resta imprescindibile per l’associazione. In quest’ottica, sentiamo l’esigenza di non avere un, bravissimo, dirigente nazionale che diventa presidente nazionale.

Le rifaccio la domanda: come andrà a finire il congresso fra lei e Filippo Miraglia?

Siamo portatori di due anime diverse. Ma l’importante è che il congresso discuta apertamente, e positivamente, di questo, per poi prendere una decisione. Per ripartire con slancio, qualunque sia la visione che prevarrà. La differenze fra di noi sono di natura organizzativa. Un fattore che nell’Arci, vista la natura di quella che è, lo ripeto, la più grande associazione laica italiana, diventa automaticamente una questione politica.