Il decreto Sicurezza verrà approvato, insieme a quello sulla Famiglia dei 5 Stelle, solo la settimana prossima, a elezioni celebrate. «Abbiamo convenuto sulla convocazione del consiglio dei ministri con i vicepremier», annuncia Giuseppe Conte qualche ora dopo aver affrontato la spinosissima questione con Sergio Mattarella, in un pranzo di lavoro al Quirinale. Dopo di lui, in gran segreto, è passato dal Quirinale anche Matteo Salvini, che già al mattino aveva detto chiaramente di essere disposto a rinviare e che in serata ufficializza: «Non mi do fuoco se il decreto viene approvato la prossima settimana».

CONTE PROVA a minimizzare il ruolo del Quirinale. «Non c’è stata nessuna censura preventiva», giura. Che i testi dei decreti vengano vagliati dal Colle prima dell’approvazione è prassi, specifica. Il suo è un atto dovuto e probabilmente richiesto dallo stesso capo dello Stato, a dir poco scontento per essere stato trascinato apertamente nella disfida prima da Conte e poi dall’intero M5S. Ma la realtà, diplomazia quirinalizia a parte, è che Mattarella non voleva affatto che il decreto Sicurezza finisse sul suo tavolo per la firma prima del voto. La situazione, dal punto di vista istituzionale, sarebbe stata imbarazzante. Se avesse apposto la firma, avrebbe avvalorato una lettura che vedeva Salvini vincere un braccio di ferro caricato di significati a un soffio dall’apertura delle urne. Se lo avesse bocciato, l’impatto sul voto sarebbe stato anche più deflagrante, anche se in senso opposto.

Dunque il capo dello Stato ha giocato di sponda con i 5S, il cui interesse era convergente. Neppure loro volevano l’approvazione del dl di Salvini prima delle elezioni, tanto più che rischiavano di restare loro a bocca asciutta, non essendo ancora ben definite le coperture per il decreto Famiglia, quel miliardo che Tria ha chiarito non può essere «coperto» dai risparmi rispetto al costo preventivato del reddito di cittadinanza, essendo quei risparmi ancora del tutto incerti. Dunque la tenaglia si è chiusa e Salvini ha fatto buon viso a gioco neppure troppo cattivo. I dividendi elettorali del dl sono comunque già garantiti e uno scontro istituzionale col capo dello Stato, sommato a quello interno al governo, sarebbe stato più dannoso che altro.

«NELL’ULTIMA VERSIONE i rilievi di incostituzionalità sono stati superati», afferma Conte. In realtà nel pranzo di ieri il presidente avrebbe avanzato dubbi e critiche anche sulla seconda parte del decreto, quella sull’ordine pubblico. Meno fragorosa dei primi due articoli sull’immigrazione, con quella incredibile «multa sui salvataggi» modificata nell’ultima stesura del testo, la parte del dl sull’ordine pubblico è ai confini dello Stato di polizia. Secondo voci dal Colle tratta le manifestazioni politiche alla stregua del teppismo ultrà da stadio e potrebbe dover subire ulteriori limature.

MA SE SALVINI MOSTRA il volto più conciliante, ad andare giù duro provvede Giancarlo Giorgetti, in una conferenza con i rappresentanti della stampa estera quasi esplosiva: «Il governo del cambiamento deve fare le cose, non può restare in stallo. Non accuso nessuno, tanto meno il premier, ma non si può andare avanti così, senza affiatamento». Non è un annuncio di crisi imminente, neppure una richiesta di modifiche nella composizione o al vertice del governo: «Squadra che vince non si cambia e noi, al netto delle ultime tre settimane, abbiamo fatto bene». Salvini offre la stessa garanzia: «Comunque vadano le elezioni non chiederemo neppure un sottosegretario in più».

IL MIX TRA I TONI concilianti e quelli ultimativi delinea una strategia precisa, per il dopo voto, messa a punto dalla Lega al termine di una campagna elettorale per la maggioranza durissima. Nessun conflitto istituzionale con il Colle. Nessuna crisi. Nessuna lista di teste da tagliare. Il vantaggio che le urne, se i sondaggi saranno confermati, assegneranno alla Lega, Salvini lo spenderà non chiedendo ma reclamando un’accelerazione drastica sui cavalli di battaglia sin qui tenuti immobili dal dissenso dei 5S: la Flat Tax, con l’appoggio dello stesso ministro dell’Economia, le autonomie, terreno sul quale il nord morde ogni giorno di più il freno, e come antipasto il decreto Sicurezza che in un modo o nell’altro, a urne chiuse, sarà varato.