I discutibili «election days» di settembre ci saranno, l’inedito accorpamento fra amministrative e referendum sul taglio dei parlamentari – gentile omaggio del Pd ai 5s – è cosa fatta. Con 158 sì ieri mattina al senato la maggioranza riacciuffa il decreto a un passo dalla scadenza, dopo che il voto di fiducia di giovedì sera viene annullato per mancanza del numero legale. Ma in aula a più riprese esplode il caos, al quale la conduzione d’aula della presidente Casellati fornisce una mano. Alla fine la maggioranza tiene. Ma da ora è chiaro che in aula il governo potrebbe inciampare in ogni momento.

LA MATTINATA parte male. Il voto della sera prima è annullato, il senatore Calderoli, temibile azzeccagarbugli, ha fatto un colpaccio: sa che due colleghi dichiarati in missione in realtà la mattina avevano votato. A sera lo denuncia: dunque il numero legale non c’era. Il voto si deve rifare. I senatori, già sparsi per il paese alla conquista del week end, vengono richiamati. Quelli della maggioranza ricevono whatsapp perentori. E con i trasporti dei tempi della pandemia, la missione è impossibile. Ma il miracolo succede: «Chapeau, ci siete tutti, siete stati bravi», si complimenta di buon mattino il premier Conte con i capigruppo.

ALLE 9 E MEZZA IN AULA la bagarre si scatena subito sull’approvazione del resoconto del giorno prima: la maggioranza vuole aggiungere a verbale che la presidente Casellati ha impedito alcuni interventi che avrebbero preso tempo e impedito che scattasse «il piano Calderoli». Le cose non stanno proprio così, e comunque la presidente non ci sta e alza la voce: «Chiedo scusa per quanto avvenuto ma non accetto lezioni da nessuno sulla conduzione dell’aula». Errore c’è stato, ammette, «grave ma tecnico». E verso la parte sinistra dell’emiciclo: «Se mancava la maggioranza non è colpa della presidenza». Tifo da destra, ma insorgono i 5s: perché nel profluvio verboso, Casellati lascia scivolare che al momento del pasticciaccio non era lei in presidenza ma una sua vice, la ruspante grillina Taverna. Taverna prende la parola e le rinfaccia lo scaricabarile: «La presidenza è impersonale». In sovrappiù rivela di aver presieduto al posto del collega La Russa (Fdi), cui attribuisce «la volontà di far mancare il numero legale». Casellati si ravvede e difende la collega.

MA A QUESTO PUNTO È LA RUSSA a imbizzarrirsi e invocare il Giurì d’onore: giovedì ha chiesto di essere sostituito per partecipare a un funerale e non al «piano Calderoli». Taverna si scusa. Ma a sua volta pretende scuse: in tv il forzista Gasparri l’accusa di aver proclamato un risultato falso e ne chiede le dimissioni. Gasparri non si scusa. Anzi ribadisce.

SI ARRIVA AL FATIDICO RI-VOTO di fiducia. Il centrodestra non partecipa («La destra organizza agguati, ma poi opta per il week end lungo», ironizza il capogruppo pd Marcucci), la maggioranza c’è ma si ferma a tre voti da quota 161, la maggioranza assoluta. Renzi rivendica che «per la seconda volta in due giorni Iv è decisiva per salvare il governo in senato». Ma lo si può sostenere di ogni singolo voto di maggioranza. E non solo. Salvatori sono anche i senatori a vita Monti e Cattaneo: il primo non partecipa al voto, la seconda dice sì. Ma entrambi danno un aiutino al numero legale. E persino il socialista Nencini e il dem Nannicini: contrari al decreto, non lo votano ma restano in aula.

FINITO IL VOTO LA BAGARRE ricomincia. Siamo al pingpong delle scuse: il 5s Perilli chiede che Gasparri si scusi con Taverna, Gasparri se ne frega – è dell’ala forzista filoleghista – al suo posto si scusa la capogruppo Bernini, ala colombe. «Per molto meno qualsiasi governo di centrodestra sarebbe stato costretto a dimettersi» dichiara Giorgia Meloni, leader Fdi. Calderoli se la ride: «Sgambettare il governo è come un gol a porta vuota» dice all’Huffington Post. In aula invece si scusa il capogruppo leghista Romeo: per le intemperanze dei suoi. Ma conclude: «La maggioranza non ha più i numeri. Conte ne prenda atto e si dimetta».

PER MOTIVI OPPOSTI BERNINI, che pure ha fatto da paciera, avverte che i giallorossi presto saranno punto e a capo: dovranno votare il finanziamento delle missioni all’estero e il memorandum con la Libia «sul quale i pasdaràn dell’accoglienza indiscriminata hanno già annunciato battaglia». Cosa vera. Ed è vero anche che la maggioranza può rischiare ancora.