Il 19 febbraio scorso è morto a Novi Sad in Serbia all’età di 67 anni per conseguenze da Covid-19, il cantautore e poeta dell’ex Jugoslavia Djordje Balasevic. Nato nel 1953 nella stessa città da padre serbo e madre croata, ha cominciato a scrivere poesie sin da giovanissimo e come ha narrato nelle sue canzoni abbandonò molto presto il liceo. In seguito, concluso l’iter scolastico da privatista, si iscrisse a geografia, che non ha mai finito.

Inno della gioventù
Nel 1977 entrò a far parte della band Zetva (Raccolto), con cui realizzò un single che ha venduto 180 mila copie. Poco tempo dopo passò alla band Rani Mraz (La prima brina). Nel 1978 scrisse Racunajete na nas (Contate su di noi), una sorta di inno della gioventù che si dichiarava fedele all’ideale antifascista titino, ma che ascoltava anche il rock. Dopo il 1990 non eseguì mai più questa canzone ritenendola ideologica. In realtà, negli anni Ottanta dedicò altre due canzoni a Tito, anche queste mai eseguite dopo il 1990, come se le ritenesse un errore, nonostante il pubblico ai suoi concerti le reclamasse regolarmente. In successive interviste non negò che queste canzoni avevano una loro valenza poetica.

Il successo definitivo gli arriva al festival di Spalato nel 1979 e da allora la sua carriera è stata un continuo crescendo. La piena maturità di cantautore l’ha raggiunta proprio a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, quando il paese al cui pubblico si rivolgeva era ormai sul precipizio della guerra civile. Vero mago della parola, le sue canzoni erano poesie, spesso segnate da un forte timbro melancolico. Non era un rocker, né un cantautore di stampo esistenzialista, ma un poeta dell’anima slava, che «intreccia la felicità con la tristezza».
È stato molto critico verso tutti i regimi nazionalisti nati dalla frantumazione della Jugoslavia, non meno verso quello del proprio paese, cioè quello di Milosevic.

Contro la guerra
Negli anni Novanta scrisse varie canzoni contro la guerra, tutte ispirate a un sincero j’accuse alle classi dirigenti «infantili» e alle cricche militari, che da troppo tempo sognavano le armi e che prendendo il potere hanno distrutto il paese – come più o meno recitano i versi di una sua canzone . Più volte negli anni Novanta si è dichiarato patriota jugoslavo, anche se quella Jugoslavia scompariva. Le canzoni dell’album Jedan od onih zivota (Una di quelle vite) del 1993 erano viste da molti come un lampo di speranza in mezzo al buio in cui era precipitata la società ex jugoslava. Già i titoli di ciascuna di quelle erano altamente simbolici, come ad esempio La canzone litigata, Io un perdente?, L’uomo con il chiaro di luna nei occhi che parla delle persone che vivono sotto le bombe, o Siamo colpevoli noi, con la quale ha denunciato come negli anni della transizione sono venuti a galla i peggiori elementi della società jugoslava. Cantò anche il desiderio dei tantissimi di vendere la propria casa, «anche se del nonno», pur di sfuggire da quella tragedia. Le sue canzoni furono un grido contro la guerra, ma non una dichiarazione politica, piuttosto erano una presa di posizione morale. All’epoca, ascoltare Balasevic trasversalmente in tutte le ex repubbliche, significava rifiutare la follia della guerra e l’onda degli odi fratricidi.

Gli anni novanta
Nel 2000 pubblicò l’album Devedesete (Anni Novanta), con il quale interpretò il sentimento di molti cantando «anni Novanta andatevene in quel paese», non senza nostalgia per i decenni passati. Nella sua carriera pubblicò ben sette libri di poesie. Non era un modernista ma piuttosto un Esenin pop jugoslavo della fine del XX secolo. Le sue canzoni erano ballate che raccontavano, con un’affascinante combinazione tra autoironia e melanconia, i primi amori, la scomparsa della vita contadina, una modernizzazione non risolta, le delusioni e le speranze di persone che non solo hanno visto scomparire il paese in cui hanno vissuto, ma assieme anche la possibilità di una vita migliore. Pur ricalcando spesso con le sue canzoni anche i melos locali della nativa Vojvodina e della vicina Ungheria, criticava il turbofolk. Si dichiarava il marinaio di un mare che non c’è, quello pannonico. Per molti era la metafora di essere rimasti orfani di un avvenire promesso che evaporò al sole ingannatore del nazionalismo. Con i suoi versi ha smosso gli animi slavi da Lubiana a Skopije, dimostrando che gli orizzonti di prospettiva, come anche le speranze e i sogni comuni, lasciano segni materiali anche quando non si realizzano. Non solo la sua vita, ma anche la sua morte imprevista, conferma che Balasevic è riuscito a conquistare con le sue canzoni un posto particolare nel cuore dei cittadini di un paese che non c’è più. Con la sua musica ha dimostrato che le forme simboliche costruite dagli slavi del sud nei quarantacinque anni di vita passata assieme sopravvivono anche quando il loro luogo di nascita è l’utopia.

Da Novi Sad a Sarajevo
Per salutarlo l’ultima volta non si sono solo riuniti in migliaia nella piazza principale della sua Novi Sad, ma anche a Zagabria, dove la gente ha scritto in cirillico un addio simbolico nella via principale, parafrasando così un verso di una sua canzone. A Spalato un centinaio di persone hanno cantato le sue canzoni nel peristilio del Palazzo di Diocleziano. Alla stazione di Pola in Istria hanno acceso delle candele rievocando con questo gesto una sua canzone dedicata a quella meta balneare della gioventù jugoslava.

A Sarajevo – città in cui venne a cantare appena fini la guerra – l’immagine del suo volto è stata proiettata sulla facciata della Biblioteca Nazionale. Per poco e per la prima volta dopo trent’anni, in questa occasione triste la forza della poesia ha riunito le genti della ex Jugoslavia al dispetto delle linee tracciate dai confini nazionali, dimostrando che la comunità immaginata può vivere anche al di là delle realtà politico-statali e a dispetto dei nazionalismi.

Comunque si giudichi questo fatto, resta che l’addio simbolico a Balascevic è stato un evento avvenuto in contemporanea in tutta l’ex Jugoslavia e resta che nelle sue ballate tristi e ironiche si sono riconosciuti in migliaia. Alle critiche di chi gli rinfacciava un facile sentimentalismo, si può solo ricordare che Lunacarskij parafrasando Marx scrisse che i poeti hanno bisogno della gentilezza