Spericolato artigiano pronto a tutto, prolifico realizzatore di un film dietro l’altro, Sergio Corbucci è stato anche un puntiglioso professionista, in grado di frequentare con cinica disponibilità i generi più disparati, un cineasta di rara intelligenza che padroneggiava con sorniona disinvoltura i meccanismi della macchina-cinema. Conoscitore attento del pubblico di massa e dei suoi cambiamenti d’umore, prodigioso money maker in grado di sbancare il box-office puntando sui grandi numeri dei campioni d’incasso, alla fine della carriera diventa sempre più insofferente neiu confronti della costrizione del successo, dell’obbligo di far soldi a ogni costo. Si era sempre divertito a fare il cinema. Sin dalla decina di film realizzati nel corso degli anni Cinquanta quando aveva cominciato alternando melodrammi, gialli, comico-musicali, riviste. Sono gli anni dell’apprendistato nell’ambito del cinema popolare, attraverso i quali si forma l’uomo di mestiere rivela nel forte impatto visivo la predilezione per il cinema americano. Si tratta di un cinema di stereotipi pieno di giovani padri dalla faccia proletaria, ladri travestiti da preti, equivoche fatalone che adescano i pescatori di spugne, tignosi strozzini decisi a impedire il matrimonio, bambine che hanno bisogno di costose operazioni, direttori d’orchestra che restano con le gambe paralizzate, illustri cimici che operano gratis, bestie umane che sparano all’impazzata, scellerati ricattatori che tornano dal passato, giovani disperati pronti a redimersi.

Cosa comporta a questo punto l’incontro con Totò, il primo veramente importante della sua carriera? Significa ricominciare da capo con un tipo di cinema che non si prende sul serio, ma vuol dire anche mettersi al servizio di Totò, principe dei comici e re degli incassi, reimparare da lui a stabilire il contatto con il pubblico di massa. Nei sette film che realizza con il grande attore, il regista trova la sua strada, contamina rivisitazione storica e commedia amara (I due marescialli), sterza verso il patetico (Lo smemorato di Collegno), tenta il film corale all stars (Il giorno più corto), ma non smette mai di puntare sulla parodia (Totò, Peppino e la dolce vita, Chi si ferma è perduto, Il monaco di Monza, Gli onorevoli). Naturalmente sono parodie spudorate, in cui tutto è lecito purché sia ricondotto sul piano della caricatura assoluta, della pura astrazione comica, che fra stravolgimenti linguistici e sbeffeggiamenti surreali si accanisce distruttivamente nei confronti del modello dissolvendolo dall’interno, rendendolo progressivamente irriconoscibile. Si pensa a Totò e Peppino alle prese con le americane di via Veneto: “Voulez vous sedoir? Sedersi, sed up, sed up, sedez, sedez”. “Do you speak english?”. “Un petit pois”. “Escusez moi, please, s’il vous plais, da quante temp, voio, voi due, statte in Italia, cioè qui a Roma, in Romagna, in Romania, va!”. “Ehm, scusi, pleasse, noi vogliamo savoir, ove voi abitat, dov’è la vostra abit, la ches va, la ches, quando uno dice so’ stenche, voglio andare a ches, mi voglio riposere un tentino”. “Ma tu stai parlando barese, allora l’inglese lo parlo anch’io”. O a quando vanno al night club dove scambiano il “Moèt Chandon” con “Mo’ esce Antonio”, il ballo ceek to ceek con un proverbio giapponese e spengono con la tovaglia l’omelette alla fiamma. O a Totò e Macario, “santi monaci” alle prese con un cattivissimo Nino Taranto, alle loro litanie scombinate a base di “Assia Noris ora pro nobis, Sophia Loren ora pro nobis, Anna Maria Pierangeli ora pro nobis, Tony Curtis ora pro nobis, Curd Jurgens ora pro nobis, Brigitte Bardot, Bardot, Brigitte Bardot, Bardot, Brigitte Bardot”, allo scontro con i finti frati Adriano Celentano e Don Backy che fanno la questua ballando il twist, a Moira Orfei monaca di Monza che guida le sorelle all’assalto. Nelle risentite imputature di Peppino De Filippo, nelle goffaggini da finto tonto di Erminio Macario, nelle esacerbate pedanterie di Nino Taranto, nelle repliche emunctae naris di Mario Castellani, nei duetti scespiriani di Lia Zoppelli, nei guizzanti soprassalti di voce di Vittorio De Sica, il regista ritrova la chiassosa vitalità della comicità popolare, con i suoi caratteri ribaldi, mentre Totò sta a se, è una presenza assurda, rappresenta l’imponderabile, il grottesco, l’inverosimile che sfida le certezze correnti.

Negli stessi anni prende il via la stagione dei pepla inaugurata sul set di Gli ultimi giorni di Pompei e proseguita con Romolo e Remo e il figlio di Spartacus. Si tratta di una prova generale del western ormai imminente. Romolo e Remo è, in questo senso, esemplare con i pastori che cavalcano come cowboys, i soldati circondati nella valle come gli indiani, i carri che si mettono in cammino come le carovane dei pionieri per raggiungere la terra promessa dove far sorgere una nuova civiltà, Remo che nel prefinale appare in controluce come un cowboy solitario. C’è tutta la vivacità del cinema a grande spettacolo, il gusto di girare en plein air, il divertimento muscolare delle scazzottate, il piacere di abbandonarsi al racconto avventuroso con l’isterismo di massa dei riti sacrificali, i duelli per la leadership, gli assalti alle città fortificate, le bizzarre escogitazioni delle macchine da guerra.

L’incontro con il western rappresenta il momento forte dell’avventura cinematografica di Sergio Corbucci, quella in cui meglio si realizza l’idea del cinema come grande gioco di simulazione, spazio illusionistico del trompe l’oeil. Il cow-boy quasi cieco di Minnesota Clay, che combatte l’ultima partita senza vedere l’avversario e spara ai rumori, mette in scena qualcosa di impossibile che diventa possibile grazie al cinema, il suo duello è in realtà un duello con il pubblico della sala buia. Il regista western gioca a far finta allo stesso modo di chi gioca a guardie e ladri, ai soldati, ai cow-boys, abbandonandosi alla finzione del come se. Il segreto del western classico è l’iperbole, tanto più avvincente quanto più riesce a sembrare credibile, mentre il contrassegno del nuovo western all’italiana è l’iperbole di secondo grado, tanto più efficace quanto più vistosamente incredibile, esagerata, stravolta. Sin dalla prima, indimenticabile sequenza di Django, il cavaliere nero che incede nel fango e nella pioggia trascinando una cassa da morto scandisce una nuova topografia dell’epos che si sbarazza della storia e si esalta nella visualità delirante, artificiosa a tutto volume, del paesaggio. Spiazzante rivisitazione della narrativa d’avventura in chiave postmoderna, suggerisce un’immagine dell’eroe che non è più in grado di modificare il mondo e di agire su di lui. Superando le prove, eliminando i nemici, lascia ogni cosa al suo posto, non muta l’assetto sociale e non pretende neppure di farlo. Scomparsa la mitologia della frontiera, siamo in una gelida no mans land, un periglioso fuori storia in cui i macabri fantasmi dei gotico rinnovano gli artifici barocchi della vicenda, moltiplicando gli eventi eccezionali, inattesi, straordinari, e la sottolineatura sanguinaria e perversa. Il film all’epoca ha un enorme successo in tutto il mondo. Quando qualche anno dopo Pier Paolo Pasolini va in Uganda per i sopralluoghi della sua Orestiade africana, non appena scoprono che è italiano per le strade tutti lo chiamano a gran voce “Django! Django!” .

Il grande silenzio ricompone la liturgia visiva del nuovo western accentuando l’iconografia barbarica, estrema, di esplicita ascendenza giapponese, insieme primitiva e sofisticata. Quando infagottati nei loro cappottoni tra corazza e haute couture, i cacciatori di taglie trascinano nella neve i corpi dei morti ammazzati, sembra di ritrovare il fascino del bianco e nero con i suoi crudi contrasti, le sue cupe atmosfere. Nel paesaggio raggelato, in cui agisce una forza oscura, irragionevole, ostile, il mito solare rivela il suo cuore di ghiaccio, la trama di sopraffazione e di meschinità, di tornaconto e di accumulazione. Si avvertono i funebri rintocchi della fine, il tramonto del vecchio West con le sue illusioni, ma anche la morte per overdose di un genere che rischiava di dilapidare le sue risorse. Lo scenario è quello impietoso dell’allucinazione. Jean-Louis Trintignant è la vittima destinata a soccombere. Klaus Kinski è il carnefice che, tronfio nella sua pelliccia da donna, continua a sparare freddure come se la Justine sadiana fosse andata a scuola dal maggiordomo di Wodehouse.

Il mercenario – primo capitolo della trilogia messicana che prosegue con Gli specialisti e Vamos a matar compañeros – preme sul pedale del grottesco, enfatizzando la propensione per il gioco. L’artificio è esaltato dal doppiaggese, il gergo del western indigeno, in cui la normalizzazione linguistica delle sale di doppiaggio è attraversata dagli acri sapori della causticità romana. Il gioco si fa più scoperto, il divertimento totalmente a briglia sciolta in Che cosa c’entriamo noi con la rivoluzione?, che fa irrompere nello scenario già compromesso del western messicano due attori-maschere della commedia italiana, con tutto il repertorio di biechi istrionismi e di sordide vigliaccate. Sin dall’inizio quando Gassman intona O sole mio e dice “Sono italiano”, o quando Villaggio si mette a parlare coi cavalli, o quando tutti e due dicono “Noi siamo alieni”, sembra di essere in uno sgangherato film di Totò e Peppino. Non c’entrano niente con la rivoluzione, sfruttano fino in fondo il lasciapassare dovuto ai buffoni, attraverso cui si scatena il riso parodico e si ottiene un derisorio effetto di smascheramento. Come due figure di una strip comica a puntate, rimbalzano da una parte all’altra, passano indenni attraverso un susseguirsi di disgrazie e di massacri, sprigionando la vitalità esilarante delle grandi occasioni comiche.

Il dopo-western comincia con la tentazione di continuare a fare il western ritrovandolo nell’ambientazione romana d’antan, tra i buffi dal coltello facile e dal carattere ombroso. E il caso di Er più-Storia d’amore e di coltello, con Celentano “Er più” di Borgo e Arena “Er più” di San Giovanni, con gli scontri tra macellai e pescivendoli in mezzo agli antichi ruderi, tremende selciate in cui ci si chiede se si deve stare alle regole soltanto per correre a infrangerle. Anche Il bestione è girato come un western non solo perché è l’avventura di due uomini in giro per l’Europa in sella ai loro camion, ma perché il taglio delle immagini, il gioco dei campi e dei controcampi, carrelli indietro e zoomate in avanti, la strategia visiva è quella maturata nell’esperienza precedente. Il linguaggio forte, scandito, preciso dell’epica picaresca è metabolizzato in un racconto on the road dagli umori sanguigni e dai robusti appetiti.

Il tempo della commedia, che viene subito dopo, è ancora una volta per il regista tempo di grandi successi commerciali che proseguiranno tra alti e bassi anche negli anni Ottanta, in cui si moltiplicano i tentativi di rinnovare le formule dell’evasione ripescando i telefoni bianchi, la sofisticata americana, la satira di costume, il film a episodi. Ma i risultati maggiori si ritrovano forse nella commedia gialla, più vicina all’hard-boiled americano che al whodunit inglese. La mazzetta – in cui il commissario Tognazzi incalza l’avvocaticchio Manfredi alle prese con la corruzione, gli intrallazzi, la camorra – è un mystery partenopeo che si anima tra i vicoli, gli umori e i rumori di Napoli e si allarga alla fine ai chiassosi interrogativi della piazza, affidando a una sorta di pubblica rappresentazione lo svelamento dell’enigma. Giallo napoletano prosegue con disinibita inventiva per la stessa strada rendendo esplicitamente omaggio sin dai titoli di testa a Alfred Hitchcock e a Totò, decisamente due padrini d’eccezione, due presenze sornione e beneauguranti. Quanto agli interpreti, i duetti tra Marcello Mastroianni e Peppino de Filippo sono tutti da vedere. Mastroianni è aggrondato, umbratile, gioca di rimessa. De Filippo acrimonioso e recriminante come nelle grandi occasioni. Irresistibili.

Nei decenni successivi il cinema di intrattenimento continua a cambiare i cavalli, ma dinanzi all’invadenza della televisione, che accelera la carnevalizzazione dello spettacolo, c’è aria di crisi, il gioco mostra la corda. Fare il cinema industriale in un paese in cui non c’è una vera e propria industria è sempre più difficile. Soprattutto per un regista campione d’incassi che non può permettersi l’insuccesso. Saranno i palinsesti televisivi di ieri e di oggi, dove i suoi film rappresentano un appuntamento sistematicamente ricorrente, a dare a Sergio quello che è di Sergio, illuminando con la luce lattiginosa del piccolo schermo la singolare figura del regista che sul set si divertiva troppo per sottostare alla seriosa dittatura del cinema impegnato da cui si sentiva del tutto lontano.

LA RETROSPETTIVA

La Cinémathèque Française festeggia Sergio Corbucci in vista del ventennale della scomparsa con un’ampia rassegna dal 9 al 29 luglio, promossa insieme a Cinecittà, il Centro Sperimentale di Cinematografia-Cineteca Nazionale, l’Istituto Italiano di Cultura di Parigi. Grazie a più di una trentina di film si conferma il vivace eclettismo di un protagonista del cinema popolare italiano che deve la sua fama allo spaghetti-western – da “Django”, clamorosamente sdoganato da Quentin Tarantino, a “Il grande silenzio”, da “Il mercenario” a “Vamos a matar compañeros” – ma ha frequentato anche con brillanti risultati il mélo e il musicarello, il peplum e la commedia. Nell’ambito della rassegna sarà presentata un‘anticipazione del documentario “Un maestro chiamato Sergio Corbucci” di Graziano Marraffa, ricco di materiali e di testimonianze. Oltre alla disponibilità delle maggiori cineteche italiane e europee, è stato prezioso il contributo dell’Archivio Storico del Cinema Italiano, a cui si deve il recupero di molti titoli particolarmente rari, a partire dall’introvabile “Salvate mia figlia”, il film d’esordio del 1951.

IL RICORDO DI VALENTINO PARLATO

Sergio Corbucci è stato un grandissimo amico di chiacchiere, paradossi, battute, nonsensi. Non abbiamo mai fatto una cosa seria insieme: ci sarebbe venuto da ridere, ma io gli volevo bene e credo mi ricambiasse. Sergio Corbucci è stato, nella sua gioconda e sporcacciona trasgressività, un critico dell’ideologia italiana assai più forte dei Gassman del Sorpasso e dei Mostri. Lui ci entrava dentro e si divertiva, nel film, come a cena, come davanti a un bicchiere di vino. Con lui e con sua moglie Nori, quando stava lavorando a Rimini, Rimini, mi sono fatto tutte le discoteche della costa tra Rimini e Riccione, da Baia Imperiale a Lili Marlen a Bandiera Gialla. E ricordo anche il gioco, che lo faceva scoppiare di risa, dell’abbonamento omaggio del «Manifesto» al Grand Hotel di Rimini. «Tu pensa – mi diceva – in questo posto dove Benito e Claretta scopavano mi arriva “il manifesto” tutte le mattine». Non capisco nulla di cinema e Sergio faceva molti pasticci di politica (era uno che aveva metabolizzato anche l’attuale partito socialista), ma nella storia della cultura italiana questo personaggio ridondante, estremamente corposo anche nell’anima, un posto se lo è conquistato. Era uno dei pochi registi italiani che davanti alla parola “messaggio” moriva dal ridere, e tuttavia, a modo suo (in fondo era anche un uomo semplice) un messaggio lo voleva mandare. Ma per chi fosse stato in grado di capirlo, tra cachinni, volgarità, “barriole” e altre varietà. Tutto sommato Sergio Corbucci era, nel senso migliore della parola, un aristocratico: ma ve lo immaginate voi Sergio Corbucci nei panni di un aristocratico? Questa era il suo miracolo. La ragione per la quale tanti residuati non omologati gli vogliono bene. E sempre con un grande abbraccio a Nori, senza la quale non credo che avremmo conosciuto il Sergio che abbiamo conosciuto.

Valentino Parlato (1993)