Attivista femminista e scrittrice fulani, Djaïli Amadou Amal nasce a Maroua nell’estremo nord del Camerun. Grazie alla sua scrittura, negli ultimi dieci anni la letteratura del Sahel si è arricchita in sfumature, nuotando nel bacino di una tematica che avvicinando tradizione e scosse di modernità svela i meandri di una società fortemente androcentrica.
Scuotendo le fondamenta patriarcali, la penna incisiva e impegnata di Djaïli Amadou Amal si è mossa nella scrittura di tre romanzi: Walaande ou l’art de partager un mari (Ifrikiya, 2010); Mistirijo, la mangeuse d’âmes (Ifrikiya, 2013) e Munyal ou les larmes de la patience (Proximité, 2017), editi in Camerun. L’ultimo, edito in Francia presso Emmanuelle Collas éd., nel 2020 ha ottenuto il Goncourt, diventando a breve uno dei libri più letti del primo anno pandemico.

Le impazienti (Solferino, pp. 224, euro 17, traduzione di Giovanni Zucca) intreccia le storie di tre donne, si sono incontrate per sorellanza o per il fortuito succedersi degli eventi e sono accomunate dall’ingiunzione a un destino comune e imposto – quello di un matrimonio precoce e non scelto. Djaïli Amadou Amal vi dipinge i ritratti di Ramla, Hindou e Safira, nate e cresciute in famiglie benestanti di Maroua, nel dipartimento di Diamaré in Camerun. Il canto simultaneo di voci diverse racconta come prende forma l’esistenza già scritta delle tre giovani donne, nell’ossequio a un sistema in cui i matrimoni precoci e coatti garantirebbero formalmente la protezione delle donne dall’indigenza e dagli abusi sessuali. Il racconto polifonico di Amadou Amal Djaïli ci mostra invece quanto tale sistema risponda al desiderio di mantenimento dello status quo e a quella soffocante ansia di controllo nei confronti di eventuali scarti dalla norma – di quelle incontrollabili e impazienti ribellioni, generative di cambiamento. Per Djaïli Amadou Amal è l’interpretazione faziosa dei testi sacri mescolata al peso della cultura tradizionale a costituire lo zoccolo duro del sistema patriarcale dell’etnia semi-nomade dei Fulani.

Cosa rappresenta la scrittura in un contesto geografico, quello dell’Africa saheliana, dove la scolarizzazione femminile è ancora poco diffusa e l’accesso all’istruzione per le donne è ostracizzato?
Innanzitutto devo ringraziare i miei genitori per il privilegio che ho avuto di essere stata iscritta a scuola. I miei genitori mi hanno incoraggiata negli studi ed è grazie alla scuola che nel mio destino si è operata una deviazione. La grande rivoluzione della mia vita è arrivata con l’amore per la lettura: è attraverso questo amore che ho capito che il contesto sociale che mi circondava non rappresentava la norma.
A diciassette anni mi sono sposata: un matrimonio imposto. È grazie alla lettura che mi sono salvata, perché è grazie alla letteratura che ho trovato la mia via, la mia vocazione: la letteratura mi ha permesso di evadere dalla realtà e la scrittura, che ho iniziato a praticare, è stata per me il mezzo per provare a migliorare la condizione delle donne che mi circondavano.

«Munyal, les larmes de la patience», questo è il titolo originale del suo libro che nell’edizione francese, come in quella italiana, è stato modificato mettendo in risalto «l’impazienza», anzi «le impazienti» – indocili al «munyal». Può provare a spiegarci cosa significa «munyal» e il valore che questo dogma riveste presso l’etnia semi-nomade dei Fulani?
Munyal è il valore fondamentale dell’etnia Fulani. Esso rappresenta la pazienza nei confronti dello stato delle cose. Munyal vuol dire pazientare, che significa sopratutto accettare senza lamentarsi. Sono le donne ad essere più soggette al munyal: per le donne fulani il sacrificio della propria felicità è à profitto della felicità del marito e dei figli. Il titolo originale del mio libro, in effetti, anticipa nella scelta lessicale «larmes-lacrime» la conseguenza di questo sacrificarsi ad oltranza. Ma la pazienza è stanca di pazientare.
Nei titoli scelti per le traduzioni europee è stato sensato omettere questa parola: in Africa munyal significa molto per tante persone, ma in Europa non avrebbe sostanziato il carico di frustrazione e sofferenza che si porta dietro. Le eroine del mio libro sono delle impazienti, perché si rivoltano a questo dogma.

La realtà sociale che lei tratteggia nel suo romanzo mostra come la capacità di sopportazione delle donne descritte non abbia nulla a che fare con una presunta e intrinseca docilità femminile, ma che si tratti piuttosto di una ingiunzione ripetuta fin dall’infanzia alle bambine: «Pazienza, munyal, bambina mia, stai entrando in un mondo fatto di dolore. Sei così giovane, così impaziente, ma sei una ragazza, quindi ricordati, munyal, per tutta la vita. E comincia subito, perché il tempo della felicità è breve per una donna. Pazienza, figlia mia, già fin d’ora».
Le donne non sono docili o nate con un’inclinazione naturale nei confronti del munyal. Il brano scelto dimostra come si tratti di una ingiunzione che viene ripetuta fin dalla più giovane età, per incollare una presunta inclinazione a quella che è invece un’educazione impartita e decisa dalla società. Credo che l’esempio che farò possa descrivere ciò chiaramente: quando un neonato maschio piange, la madre accorre prima possibile per rispondere ai suoi bisogni; quando è una neonata a piangere il comportamento delle madri è diverso: le piccole vengono lasciate attendere per un intento ben preciso. Fin da quando sono in fasce le bambine devono abituarsi al munyal, all’attesa docile. Dicendo questo non voglio colpevolizzare le madri che lasciano piangere le bambine, perché sono convinta che applichino questo comportamento per il bene delle figlie, affinché imparino prima possibile ad abituarsi a ciò che loro malgrado le attenderà. Ecco dunque perché si tratta di una ingiunzione, di una pratica che si tramanda e non di qualcosa di intrinseco a una presunta docilità femminile.

Nel romanzo il matrimonio poligamico è descritto come una pratica a profitto maschile, in ordine al fatto che il malcontento e l’insofferenza delle co-spose invece di riversarsi sulle responsabilità del marito confluisce nelle antipatie reciproche e nelle rivalità tra le mogli. Safira, pur nella frustrazione, ha il ruolo di prima moglie da difendere. Tuttavia, sabotando il matrimonio di Ramla, inconsapevolmente le concede la libertà di andarsene. Quanto pesa questa libertà?
Mi preme dire subito una cosa: il matrimonio precoce rappresenta la prima grande violenza imposta alle donne. Questa violenza ne genera altre. Formalmente i matrimoni precoci hanno luogo per garantire il benessere economico delle giovani donne; in realtà di tratta piuttosto della tessitura di una dipendenza finanziaria che le accompagnerà nell’arco di tutta la loro vita. Ramla aveva delle ambizioni: ottenuto il diploma avrebbe voluto aprirsi ad altri orizzonti, che le sono stati preclusi. Per lei partire rappresenta una forma di liberazione – una liberazione davvero rischiosa, perché la ragazza sceglie di non dipendere da nessuna forma di tutela. Le donne fulani possono divorziare, sia chiaro, tuttavia il divorzio rappresenta la perdita di ogni tipo di sicurezza finanziaria. Questa perdita di sicurezza non le svantaggia solo individualmente ma riguarda anche i loro figli. Per questo, anche se potrebbe sembrare un controsenso, le domande di divorzio sono per la quasi totalità fatte dai mariti. La stessa cosa vale per la poligamia: sono gli uomini a decidere di applicarla alla propria esistenza.
Eppure le ostilità non vengono aperte nei loro confronti, ma nei confronti delle nuove mogli. Come si legge nel libro il grande problema delle rivalità tra le co-spose non ha assolutamente a che fare con l’idea romantica di un amore che si fatica a condividere: si tratta piuttosto del timore che l’eredità e i beni del marito vadano spartiti con i figli di altre mogli e che quindi in ordine a ciò la propria progenitura ne sia irrimediabilmente svantaggiata. Presso i Fulani esiste questo proverbio: «Fuggire per salvare la propria pelle è la più grande forma di coraggio».

La quasi totalità dei personaggi maschili è descritta come un insieme di uomini ancorati agli usi tradizionali e al credo islamista più radicale. Quale è la relazione nel nord del Camerun tra le tradizioni locali e le religioni monoteiste che si sono imposte nei secoli?
È apprezzabile che per una volta non sia il solo credo islamista ad essere messo in causa. Ci tengo a ripetere che il grande problema sia la sovrapposizione delle religioni monoteiste (sovrapposizione che fu imposta!) al credo tradizionale. Parlo del nord del Camerun perché è la realtà che conosco di più, ma le conseguenze deleterie che nascono dalle sovrapposizioni imposte sono comuni a tutta l’Africa sub-sahariana. L’interpretazione faziosa dei testi sacri, di tutte le religioni rivelate, ha come conseguenza la difficoltà, anche l’impossibilità, di distinguere le tradizioni locali dagli stessi testi sacri. Nell’etnia fulani ad esempio, che era all’origine nomade – e ora è seminomade e totalmente sedentaria nelle grandi città – le donne, pur nel rispetto dei ruoli, erano davvero più rispettate. Ora il nomadismo si sta estinguendo ad una velocità impressionante, per difficoltà materiali legate al progredire della desertificazione, ai conflitti derivanti dalle frontiere imposte in territori soggetti alla pastorizia, all’impoverimento generale delle terre causato dal cambiamento climatico. Qual è la conseguenza di tutto ciò? L’aggravarsi delle condizioni delle donne.