Il dj è il perno su cui ruota la cultura dei club nell’ambito della quale è una figura molto rispettata sia per le sue conoscenze «sotto-culturali» (il termine viene usato con riferimento ad una sottocultura nel senso di cultura bassa e/o subalterna) di cui dispone, che per il ruolo che svolge nel definirle e (ri)crearle. Raffaele Costantino, non è soltanto un fine divulgatore, con la sua finestra sul mondo delle musiche popular che è Musicalbox, il programma radiofonico che conduce su Radio2 da ventiquattro stagioni, ma un personaggio multiforme. Con la sua emanazione più intrigante come dj Khalab (un nomignolo che incorpora le sue origini calabresi), si è costruito una reputazione di innovatore che si è sempre distinto per la predisposizione alla ricerca e alla sperimentazione e per la capacità di creare una versione personalissima dell’Africa attraverso una sintesi tra i ritmi urbani africani e i beat della club culture di stampo occidentale. «Il mio primo ricordo in musica è legato ad un acquisto che fece mia madre quando ero un ragazzino. All’epoca facevano queste promozioni e assieme ad un set di pentole per la casa le regalarono uno stereo,un cubo con il giradischi sopra. La mattina dopo andai a Catanzaro, non andai a scuola ma in un negozio di dischi e comprai il mio primo disco in vinile: una compilation di Ll Qj sulla scena hip hop di Los Angeles. Capii allora cosa potevo farci con quell’oggetto», racconta scavando nella memoria.

«A ROMA cominciai a lavorare ad Electric Sound, un negozio di dischi che si trovava a Largo dei Colli Albani, dove conobbi Riccardo Petitti, il mio mentore» per giungere al network di relazioni sociali che incrociando le loro traiettorie gli hanno consentito di entrare nel mondo della radiofonia e di occupare le consolle più prestigiose». La figura del dj è cambiata quando il dj si è chiuso in studio e ha cominciato a produrre», poi taglia corto. A proposito di competenze socio-tecniche, ovvero l’insieme dei «saperi necessari per utilizzare macchine e software» che si formano attraverso la pratica, è altrettanto categorico: «Non esistono scorciatoie, bisogna formarsi e investire, lo dico sempre ai più giovani che mi chiedono come si fa a fare quello che faccio io». Non per niente qualche anno fa è stato convocato anche dalla Ninja Tune per la compilation Beat Tape, soltanto uno dei tasselli delle sue collaborazioni illustri. Proprio nell’anno appena concluso Khalab è tornato sul patrimonio sonoro attraverso cui sta modellando la sua discografia; poliritmie subsahariane, melodie magrebine e voci distorte dei rituali sciamanici popolano M’berra, il suo ultimo album intestato a lui medesimo con un ensemble di musicisti profughi maliani pubblicato per l’iconica Real World. «Sì, c’è tanto field recording, nel senso che abbiamo registrato in un campo profughi della Mauritania, tutto il materiale sonoro con musicisti Tuareg fuggiti dalla guerra civile che vivono in un campo dell’Unhcr, dove la ong InterSos gestisce alcune attività, tra cui un centro culturale. Sono stati loro a chiedermi di visitarlo perché avevo già collaborato con loro». Nel disco i cordofoni tradizionali fanno da padroni, come l’imzad, uno strumento ad arco a corda singola generalmente suonato dalle donne, che trovano nella ripetizione ipnotica un punto di contatto con gli spunti creativi che Dj Khalab mette in loop con il suo campionatore (Roland SP404, dal quale non si stacca nemmeno per i suoi live).

«CI SONO SIA i cordofoni tradizionali come il tehardent che è lo strumento suonato dai griot, quello che viene chiamato anche ngoni, che strumenti occidentali come le chitarre elettriche. Ma non avendo la possibilità di andare ad acquistare le corde di ricambio, questi musicisti usano i fili delle frizioni o dei freni dei motorini che trovano negli sfasciacarrozze, perciò le chitarre assumono un suono molto particolare». Poi spiega: «M’berra è il nome del luogo del campo profughi, dove vivono attualmente cinquantamila persone, è enorme. Ho creato io l’ensemble a cui ho dato questo nome, che è formato da musicisti per lo più sconosciuti che non sono mai usciti da lì, tranne un paio che suonano nei Tartit, un ensemble di blues del deserto. È un modo per esprimere la loro identità culturale, non è poco in un contesto tanto desolato».

KHALAB ha dimostrato già scaltrezza e lungimiranza nel coniugare uno scrupoloso lavoro di scavo e di ricerca filologica quando gli si sono aperte le porte del Royal Museum for Central Africa di Bruxelles, con il suo pallino per l’afro-futurismo in occasione del suo Black Noise 2084 (ospiti Shabaka Hutchings, Moses Boyd, Tamar Osborn e altri), che tanto per parafrasare Paul Gilroy tende a riunificare roots e routes. Per M’berra invece ha indossato i panni da Alan Lomax del Terzo Millennio, effettuando con la sua équipe di ricerca una specie di osservazione partecipante con uno spirito attento e rispettoso delle culture con cui è entrato in contatto. «Mi sono fatto raccontare le loro storie, tradurre i testi che poi abbiamo inserito nel booklet, abbiamo fatto uno shooting fotografico»(parte del quale finito nel formato fisico di M’berra, nda). Poi, aggiunge: «Quando sono tornato a Roma con tutto il materiale, ho fatto un lavoro di post-produzione davvero molto lungo». La sua ultima fatica è The Great Oxidation, il nuovo ep disponibile anche in vinile, pubblicato per la sua etichetta Hyperjazz, un ritorno alle radici ancestrali con un gusto di area Warp sono gli elementi delle tre tracce. «Il tema di questo ep è l’ossigeno e si riferisce a questo grande evento avvenuto due bilioni di anni fa che ha modificato le forme di vita sulla Terra». E chiosa: «L’ossigeno ha un significato molto importante per me, perché per un periodo ho avuto problemi di respirazione legati all’ansia che risolvevo soltanto chiudendomi in studio con le macchine, al buio con tutte quelle lucine. Questa è una cosa molto sciamanica secondo me». Musica anaerobica che ridona il respiro.