«Sono responsabile. Sono responsabile di avere aiutato Fabo ad esercitare la sua volontà, quella di morire». «Perché lo ha fatto?», domanda il pubblico ministero in un’aula avvolta dal silenzio. «Perché credo che le persone abbiano il diritto di scegliere come vivere e come morire. Per me è stato un dovere corrispondere a quella richiesta».

Si è difeso così Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, davanti alla prima sezione della Corte d’Assise di Milano. Lo ha fatto ieri, durante il processo che lo vede imputato per il reato di aiuto al suicidio per aver accompagnato a morire in Svizzera Fabiano Antoniani, il dj rimasto paralizzato e cieco a seguito di un incidente stradale.

Un’udienza cruciale, la terza dall’inizio del processo, perché le pm Tiziana Siciliano e Sara Arduina hanno richiesto la visione integrale dell’intervista rilasciata da Fabiano al programma tv Le Iene pochi giorni prima di morire. Un racconto lucido, dettagliato, commovente, quello che è emerso nel video proiettato in un’aula gremita e attenta. «È una sofferenza immane. Non la auguro a nessuno, neanche al mio peggior nemico», spiega Fabiano a Giulio Golia, inviato del programma. «Ma sei convinto della tua scelta?», domanda il giornalista. «Assolutamente sì», risponde il ragazzo. «Io quantifico la vita in qualità non in quantità, e ora sto sopravvivendo di quantità. Andrò via col sorriso, andrò via libero».

Il giornalista, sentito poi dai giudici, ha confessato con evidente emozione che quell’incontro con Fabiano lo ha «segnato« profondamente. L’intervista, caratterizzata da un botta e risposta dai toni a tratti ironici («puoi parlare con la mia fidanzata, basta che ti limiti a quello», ammonisce il 40enne) ha ripercorso gli ultimi anni di vita del ragazzo, l’incidente, il dolore, e la convinzione di voler morire «con dignità». Le parole del dj hanno svelato dettagli importanti anche sotto il profilo penale, mostrando come quella scelta fosse già stata presa prima del contatto con Cappato, e che si trattava di una volontà «irrevocabile».

Proprio nelle ore in cui il Parlamento discuteva la legge sul testamento biologico, nel Palazzo di Giustizia è stata proiettata la testimonianza della compagna dell’uomo, Valeria Imbrogno, che ha spiegato come «trovare un notaio oggi in Italia che autentichi le disposizioni di ultima volontà di un cittadino è difficilissimo». Perché nonostante sia già un diritto riconosciuto da numerose sentenze dei tribunali, a oggi manca una legge che consenta a una persona di esprimere la propria volontà in merito alle terapie cui intende o non intende sottoporsi, in caso di incapacità.

Sul punto è stato Veneroni, medico di fiducia di Fabiano, a ricordare che il testamento biologico ha rappresentato per l’uomo una tappa fondamentale per poter avviare le procedure di suicidio assistito in Svizzera. «Fabiano Antoniani era pienamente capace di intendere e di volere», ha affermato il medico, ricordando che quella di cui soffriva il suo paziente era una patologia «non reversibile».

La condizione clinica è stata confermata dal consulente tecnico dell’accusa, che ha ripercorso la terapia del dolore cui era sottoposto Fabiano e definito i suoi spasmi muscolari «incoercibili». «Ma esisteva una strada, per così dire, italiana?», ha chiesto la pm al Mario Riccio, medico anestesista che nel 2006 aiutò Piergiorgio Welby a morire. «Quella della sospensione della nutrizione e del mancato utilizzo della ventilazione meccanica», ha risposto il medico. Che ha aggiunto: «per questa via la morte sarebbe giunta solo dopo svariati giorni e in una condizione di particolare sofferenza». E questo era esattamente ciò che Fabiano Antoniani non voleva. Aveva infatti deciso di andare a morire in Svizzera «perché non voleva morire soffocato interrompendo le cure», aveva spiegato la madre del ragazzo nella precedente udienza.

In chiusura, la deposizione di Marco Cappato. È stata una confessione spontanea la sua, sin da quando si autodenunciò ai Carabinieri non appena varcata la frontiera italiana. «Sono un militante politico», ha detto ieri in aula. «Credo nell’importanza della legge nel normalizzare i diritti. Per questo, di fronte a un legislatore immobile, ho scelto la via dell’autodenuncia pubblica: per affermare questo diritto di libera scelta di fine vita».

L’udienza conclusiva si terrà il 17 gennaio. Per il 14 febbraio è prevista la decisione della Corte. Una decisione che arriverà a chiusura di un processo che si ha tutta l’impressione avere avuto come imputato principale il legislatore.