La famiglia Cipriani investe a Ibiza e apre il Boom!, il primo super club a sfidare il dominio della grandi discoteche ibizenche. In mezzo, quasi 40 anni che vanno dalla disco underground delle minoranze latine a New York a Raffaella Carrà che canta con Bob Sinclar. I dj non sono mai stati come adesso così irresistibilmente alla moda, oggetti del desiderio di teenager alle soglie dell’adolescenza e del marketing delle aziende, una ondata di talenti che arrivano da ogni angolo del mondo, che dimostrano come i linguaggi della trasformazione non siano più soltanto quelli, come era tradizionalmente, che provengono dalle culture anglosassoni.

, , filtrare un suono. E non è rimasto nemmeno il ballo, solo l’adorazione nei confronti della star che, per farsi meglio notare, è costretta persino a indossare, come fa DeadMau5, due enormi orecchie da cartoon. [do action=”citazione”]L’etica del punk, il do it yourself ha finalmente trionfato. E se solo sino a qualche tempo fa, era possibile sostenere che il dj era una forma di rappresentazione del sapere opposta a quella della rockstar, perché capace di azzerare la barriere tra chi fa e chi produce musica, oggi gli show dei celebri remixer internazionali, sono concerti pop, con tanto di effetti, laser, luci e ballerine per arricchire una scena dove non c’è nessuno che si contorce su una chitarra o suda su una batteria, ma si limita a girare una manopola[/do]

Allora, dove sta, nel 2013, la differenza? Nella frase dei DeLa Soul. Fare il dj , oggi, è l’unica via di fuga per avere un pubblico, per esprimersi attraverso la musica senza passare per i reality. Per questo, fare il dj è una pratica sociale, è una speranza, quella di poter, in tempi brevi, riempire se non gli stadi, un club, una piazza, percorso che nelle altre forme musicali giovanili è ormai regolato dalle audizioni, dalle giurie, dai voti, insomma, dai talent.

I dj, invece, anche quando diventano famosi e criticati («userà davvero dj set pre registrati?») come David Guetta, per fare un nome, sono ancora genuinamente «underground». Prendete Maurizio Gubellini, un nome sicuramente poco noto, un dj bolognese che ha remixato Play Hard, ultimo hit del dj francese, che con questa versione ha aperto il suo set all’Ultra Music Festival di Miami, di fronte a oltre 100mila persone. E, a proposito di Guetta un suo tweet sulle qualità creative di Congorock, giovanissimo remixer salentino, è certamente servito allo sviluppo di una carriera che ha portato il ragazzo italiano ad aprire il tour mondiale di Rihanna. E poi c’è, prendendo qualche nome dalla cronaca recente, Francesco Rossi che teenager non è (ha 38 anni) e per il quale i dj di BBC Radio One non trovano le parole per descrivere la sua ultima canzone, Paper Aeroplane. E questo vale non solo per gli italiani. Rumeni, serbi, turchi, la via che porta alla pista da ballo è oggi una babele democratica di lingue come nel rock non era mai successo. Per questo tutti vogliono fare i dj. Non è più un fatto di identificazione sociale (che ancora resiste nell’hip hop, non a caso tutti vogliono anche fare i rapper), ma estetica.

Magari per l’assoluto dominio planetario ci vogliono degli anni, come è successo ai Daft Punk magari tutto avviene più rapidamente, come per Deadmau5, magari hai superato i 50 anni, ma dietro al mixer non emani quell’aria di malinconia che invece avvolge i tuoi coetanei rockers che non ce la fanno più a saltare da una parte all’altra del palco, mostrando vistose pecche fisiche, mentre tu sei immobile dietro il mixer e ti limiti a «pompare il volume», ma è evidente che, sempre di più, il futuro è loro.
E non devi fare le prove, non devi portare in giro ingombranti strumenti, nemmeno più i dischi, ma una chiavetta, un computer, nessuno bada più alla perfezione di un mixaggio (ci sono i programmi che lo fanno). Certo, arrivare alla ricostruzione di una memoria storica è attività che riesce solo ai Daft Punk. Che con il loro Random Access Memories hanno compilato uno strepitoso songbook sulle radici funk della disco, ospitando in studio Nile Rodgers, il chitarrista degli Chic e Giorgio Moroder, per portare alla luce un passato che rischiava di essere dimenticato.

Di fronte a opere come la loro, appare persino senza senso la discussione che si è aperta dopo la recente performance di David Guetta, accusato di essersi esibito dal vivo, utilizzando un set preregistrato. Basta premere un tasto, insomma, per vedere negli occhi la felicità degli spettatori. Ai quali, probabilmente, poco importa, se la persona sul palco, seminascosta da fuochi d’artificio e video wall abbia imparato la tecnica dello scratch ascoltando i capolavori di Grandmaster Flash o i virtuosismi al giradischi di Frankie Knuckles.

D’altro canto, non erano i Kraftwerk a «usare» in concerto quattro manichini repliche dei loro corpi. E che dire delle performances con la musica pre registrata e mixata dal vivo di un grande compositore contemporaneo come Karlheinz Stockhausen? Cambia davvero qualcosa, oggi, nella considerazione sociale del dj, possedere l’abilità tecnica la bravura nel mettere insieme una sequenza di dischi, il sudore versato sui vinili? O, piuttosto, quello che conta è, al di là anche del risultato artistico, il «messaggio». Ancora, sempre, quello del punk, estate anarchica del 1976, «Potete farlo anche voi».