Il 1920 fu più funesto che lieto per il divisionismo. In quell’anno erano venuti a mancare Gaetano Previati e Vittore Grubicy de Dragon, che del movimento era stato anche il teorico, e l’anno prima Angelo Morbelli. E se a ciò si aggiunge che già nel 1916 i futuristi avevano suonato le campane a morto con quell’invettiva di Boccioni che aveva apostrofato Segantini «ignorantissimo, circondato da tedescherie, posa a gran sacerdote d’una nuova religione della natura (con la N grande) e piano piano sdrucciola dagli azzurri ghiacciai italiani alla sterile bassura tedesca», si può immaginare qual genere di anniversario sia il 2020 per il movimento artistico. Le scomparse sono occasioni, si sa, per fare bilanci, e questo è il proposito che si prefigge la mostra Divisionismo Rivoluzione della luce (fino al 5 aprile), snodandosi attraverso otto sale del Castello Visconteo Sforzesco di Novara, attraverso le quali la curatrice Annie-Paule Quisnac ha inteso illustrare sia la storia del movimento, presentando nella prima parte del percorso espositivo le tappe fondamentali del comune cammino, sia l’individualità dei singoli artisti, a ciascuno dei quali è dedicata una delle ultime sale. Il termine «divisionismo», com’è noto, deriva dal procedimento di separare in singoli tocchi del pennello i colori, dimodoché questi, invece che sulla tela, venissero a ricomporsi, a una giusta distanza, nella retina dell’osservatore. Il pubblico, tuttavia, non era sempre tanto accorto, i più, anzi, avvicinandosi troppo al quadro, ne cavavano materia per boutade, come quella d’un critico del tempo che ribattezzò Morbelli «morbillo pittorico».
Non erano cose insolite negli ambienti delle avanguardie: Manet, che si atteggiava a spadaccino mondano, aveva duellato per molto meno. Il procedimento tecnico favoriva l’esaltazione dei contrasti fra i chiari e gli scuri e il lavoro sui volumi e le grandi masse di luce, sicché le tele d’un Segantini o d’un Pellizza, come anche quelle dei post-impressionisti alla Seraut, appaiono più solide e imponenti, meno «soffiate» di quelle d’un Monet o d’un Pissarro. I soggetti ch’essi scelsero svolsero appieno le potenzialità di questo procedimento pittorico, ora trattandosi di vaste immensità naturali ora di scene d’epica sociale, come L’oratore dello sciopero (1890-’91) di Longoni o Mattino in officina (1893) di Nomellini. Ma codesta ricerca di forme più stabili e volumetriche, di rapporti tonali precisi entro un’architettura più composta a fronte della mobile iridescenza impressionista non celava soltanto una predisposizione del gusto. Camminiamo per le sale del Castello Visconteo Sforzesco: come questi pittori sentirono la natura? Guardiamo le vaste distese d’acque incorrotte, i morbidi altipiani rivestiti d’erbe giovani, le plaghe ghiacciate, i borghi accovacciati sotto la quieta chiostra dei monti e sentiamo come, in tutte queste immagini d’una natura ampia e solenne, i divisionisti abbiano cercato d’infondere al paesaggio attraverso la vibrazione luminosa come una segreta unità di corrispondenze. Si ha così nel Bosco (ridipinto più volte, nel 1887, nel 1891 e nel 1912) di Grubicy de Dragon l’immagine d’una terra tutta disseminata di riverberi dorati che un placido popolo d’armenti va pigramente brucando o si hanno in Fontanalba (1904-’06) di Carlo Fornara, quei due specchi eguali che si corrispondono l’un l’altro: il lago e il cielo.
Così di sala in sala notiamo un comune rifiuto di quella visione del mondo, ch’era stata negli impressionisti come il risultato di un assoggettamento dell’occhio alla fisicità della luce: «Malgrado le differenze nella messa in atto della divisione del tono da parte dei singoli divisionisti – scrive la curatrice – e i modi in cui vi sono arrivati, è da sottolineare una costante: l’esecuzione, o quanto meno la conclusione dell’opera in studio. Il dipinto, infatti è il risultato di un lungo lavoro preparatorio su schizzi e disegni dal vero, versioni precedenti, a volte anche fotografie. Una pratica che non è in alcun caso impressionista, ossia presa diretta sul reale con una tecnica volutamente veloce, per carpire l’immediatezza della visione». Non l’immagine transitoria dunque, impressa fugacemente nella retina, ma quella ricomposta nella quieta emozione del ricordo, «emotion recollected in tranquillity», come scriveva Wordsworth d’ogni grande poesia.
D’una visione interiore lungamente decantata parla il bellissimo Quando gli uccelletti vanno a dormire, che fu più volte ridipinto da Grubicy de Dragon fra il 1891 e il 1903, e ancor più Migrazione in Val Padana (1916-’17) di Previati, con quella sua greggia carezzata dalla luce che allude al cammino della vita, come fanno le figure che, ne Le tre età dell’uomo di Friedrich, si danno congedo sulla sponda del mare. Una costruzione egualmente simbolica ha una fra le più belle tele esposte, Sul fienile (1893-’94), capolavoro di Pellizza da Volpedo, in cui l’umile scena dell’Eucarestia data a un moribondo si fa già, attraverso il contrasto d’ombre e di luce, presagio di grazia. Anche Segantini elaborò un paesaggio spiritualizzato, particolarmente in disegni come Ave Maria sui monti (1890) dove una fanciulla va pregando in raccoglimento per una stradicciola di montagna seguita da un serpentello che simboleggia il peccato originale.
Altri pittori, come Morbelli, furono meno inclini a questo tipo di poetica; pure, anche in un quadro come Un Consiglio del nonno (1891), che parrebbe tratto dal quotidiano, una luce aurea e velata, come una mussola d’oro, solleva un po’ le figure dal piano della stretta contingenza. Certo, questi artisti non si somigliavano né per sensibilità né per educazione. Previati con quelle sue «lunghe e sottili strisce di pasta colorata, piegate tutte secondo uno stesso ondulato movimento» ricorda Puvis de Chavannes; Segantini, che ha cadenze quasi preraffaellite nei carboncini Edelweiss e, soprattutto, Rododendro (1898), in cui il fiore alpino è allegoricamente rappresentato nel tipo rossettiano di belle dame sans merci, ricorda de La Tour nel dipinto All’ovile (1892), quando si guardano i suoi pastori si pensa, invece, ai contadini di Millet; Grubicy De Dragon credette, come il suo maestro Fontanesi, che l’anima dell’uomo fosse una piccola goccia da dissolvere nel paesaggio e dipinse scene naturali in cui la luce, come spirito animatore del mondo, permea e imbeve di sé tutte le cose. I lavori di Nomellini, infine, sono ditirambi pagani, quasi trascrizioni del D’Annunzio alcionico.
Cionostante, il divisionismo ebbe contorni precisi, anche cronologici. A un dato momento la religione della macchina sostituì quella della Natura e un’opera come quella di Segantini fu sentita obsolescente dai futuristi. Il boato dei motori ruppe allora il silenzio delle valli inviolate. E Wally non sentì più il richiamo funereo dei suoi monti.