Non saranno i risultati di stasera a terremotare il quadro politico: ha già provveduto la campagna elettorale e non era mai capitato prima. Come si era mai dato il caso di una sfida elettorale combattuta quasi esclusivamente da partiti alleati nell’alleanza di governo, con tanta virulenza e ostilità da surclassare le afasiche forze d’opposizione.

Questo caso inaudito non si deve alla bizzarria di un contratto di governo firmato da soggetti per molti versi opposti e dal conseguente emergere, dopo un anno di convivenza, di quei contrasti. Da quel punto di vista, anzi, i soci se l’erano cavata con mirabile aplomb. Galeotti son stati i sondaggi. L’M5S ha visto avvicinarsi due spettri ghignanti: precipitare sotto la soglia psicologica del 20% ed essere superati dal Pd, da «quelli di prima». Di Maio ha valutato l’eventualità come esiziale e ha combattuto non per uscire il meno peggio possibile dalle urne ma per la sopravvivenza e si sa che quando si gioca una partita per la vita o per la morte non si può lavorare di fioretto. Sapremo solo domani notte se la disperata controffensiva dei 5S, centrata su una repentina svolta a sinistra, avrà avuto successo.

Ma per la stabilità del governo qualsiasi esito sarà negativo: se il confine dei 20% sarà superato o comunque vicino il Movimento si convincerà di non poter andare avanti senza rendere permanente il conflitto con i soci. Se la linea dello scontro a muso duro sarà premiata, Di Maio ne trarrà la medesima conclusione. In ogni caso l’idillio è finito e a sostituirlo c’è già il Vietnam.

Salvini non si aspettava l’attacco frontale. Dopo un anno di genuflessioni era convinto che i pentastellati fossero rassegnati al ruolo di soci di minoranza, o che comunque non fossero in grado di reagire. La sorpresa lo ha spiazzato. Lo smalto si è corroso e in alcuni momenti il leghista ha dato l’impressione di essere quasi un pugile suonato. La marcia trionfale si è trasformata in un calvario, reso anche più doloroso dal paradosso derivante, al solito, dall’effetto sondaggi: se la Lega guadagnasse una dozzina di punti percentuali rispetto alle politiche dell’anno scorso e oltre venti rispetto alle ultime europee, restando però al di sotto del 30%, il risultato verrebbe vissuto, dagli stessi leghisti, come deludente. La conseguenza sarebbe un immediato indebolimento delle posizioni di Salvini.

Una parte sostanziosa del nord leghista è vistosamente scontento del freno pentastellato e su quella fiamma soffia Bobo Maroni, che non ha rinunciato al progetto, alternativo a quello di Salvini, di una Lega di nuovo fortemente territorializzata. Con un risultato superiore o molto vicino al 30% nessuno oserà mettere in discussione le scelte del leader, ma già con 3 o 4 punti di meno e con le autonomie ancora bloccate Zaia per primo e poi anche Fontana scivolerebbero sulle posizioni dell’ex governatore della Lombardia.

Anche in questo caso, nessuno degli esiti prevedibili rafforzerebbe il governo. Se la Lega uscirà amareggiata, il malanimo dello stato maggiore contro i 5S, già elevatissimo, diventerà incontenibile. Se nonostante la campagna elettorale varcherà il 30%, le richieste, in termini di misure concrete da adottare, saranno imperiose e per i 5S difficilmente sostenibili. Anche se Salvini farà in entrambi i casi il possibile per evitare una crisi che sarebbe in realtà al buio.

Sull’impossibilità di un accordo tra gli attuali soci e il Pd, infatti, il leghista preferisce non scommettere.

Quell’accordo, che quasi certamente riceverà una spinta dalle urne, dipende essenzialmente dal Pd. Zingaretti ha sinora evitato di scegliere, riparandosi dietro la previsione di un risultato moderatamente positivo dovuto sia alla chiamata alle armi contro la destra sovranista sia al cambio della guardia al vertice. Ma se le scosse della campagna elettorale saranno moltiplicate e amplificate dal voto il Pd non potrà restare imbalsamato ancora a lungo. Il tempo del popcorn sta per finire e se i risultati dovessero rivelarsi al di sotto delle attese la tregua interna cederebbe di schianto.

Nessuna tregua invece all’interno di Fi, partito sulla soglia dell’implosione e che tutti danno per quasi estinto. In realtà i risultati delle ultime regionali non sono stati però affatto sconfortanti e per l’elettorato moderato di destra il vero voto utile per calmierare la Lega e affondare l’alleanza ormai fragilissima di Salvini con i 5S è quello per Fi. Dunque proprio il partito di Berlusconi potrebbe essere la sorpresa di domani notte.

Più Europa e la Sinistra lottano per superare la soglia del 4%. Ma per la Sinistra la posta in gioco va oltre l’invio di 4 parlamentari a Strasburgo. Se il quorum verrà raggiunto l’accordo tra la ex Sinistra italiana e il Prc diventerà un progetto. In caso contrario tutto sarà tabula rasa.