Perché vietare le biciclette e considerarle pericolose armi da guerra, se il generale Bava Beccaris aveva fatto ricorso ai cannoni per placare le rivolte operaie scoppiate a Milano nel maggio del 1898? La domanda ingenua, la poneva un cronista del Corriere della Sera all’indomani di quel 7 maggio, quando la reazione non esitò a ordinare di far ricorso ai cannoni pur di placare la rabbia operaia e dare un colpo mortale alle barricate sorte in vari punti della città, che facevano presagire un’insurrezione generale e agli industriali che fossimo alla vigilia della rivoluzione. Il rumore dei pedali che imprimevano forza alle biciclette non piaceva affatto al generale Bava Beccaris, tanto che ne decretò il divieto a Milano e nell’intera provincia. Tra la fine di aprile e la prima settimana di maggio del 1898 a Milano, e in altre città italiane, scoppiarono tumulti che videro protagonisti migliaia di operai e contadini.

[do action=”citazione”]Il rumore dei pedali che imprimevano forza alle biciclette non piaceva affatto al generale Bava Beccaris, tanto che ne decretò il divieto a Milano e nell’intera provincia.[/do]

La disoccupazione e i bassi salari, unitamente agli orari di lavoro massacranti nelle fabbriche, avevano determinato uno stato generale di malcontento, ma la scintilla che fece scoppiare le rivolte spontanee fu l’aumento del prezzo del pane passato da 35 a 60 centesimi. A ribellarsi per primi furono i contadini della Puglia, il 27 aprile di quell’anno e subito dopo quelli della Romagna, proteste di piazza violente si ebbero il 2 maggio a Firenze, e il 4 maggio a Napoli, tanto che fu dichiarato lo stato di assedio. Vista la situazione generale, il ministro dell’Interno invitò i prefetti ad assegnare alle autorità militari il compito di ristabilire l’ordine. Manifestazioni si ebbero anche in altri centri ad alta intensità industriale, come le principali città lombarde.

A Milano gli operai della Pirelli furono i primi a mobilitarsi, lavoratori e sindacalisti che volantinavano erano stati arrestati e poi rilasciati, ma uno di loro fu trattenuto. La solidarietà degli operai delle principali fabbriche milanesi non si fece attendere e alle 18.30 del 6 maggio un migliaio di operai, dopo aver risposto con una fitta sassaiola alle cariche della polizia, assaltò la questura. Un drappello di militari rinchiusi all’interno non esitò a sparare e a terra rimasero due morti e numerosi feriti, gli operai furono dispersi, mentre le forze dell’ordine, al servizio degli industriali impauriti dalle rivolte operaie, facevano le prove generali di quello che sarebbe successo il giorno successivo sabato 7 maggio, quando a Milano fu proclamato lo sciopero generale. Oltre agli operai delle principali fabbriche milanesi, vi aderirono i ferrotramvieri, lavoratori di piccole imprese, giovani e una parte consistente della popolazione. Furono erette barricate a Porta Venezia, a Porta Ticinese e a Porta Garibaldi e in altri punti della città. Fu allora che il generale Bava Beccaris dette l’ordine di sparare con i cannoni sui dimostranti, che avevano l’unica colpa di protestare per l’aumento spropositato del prezzo del pane. Alcune centinaia furono i morti e migliaia i feriti.

Il 10 maggio a ogni angolo di strada di Milano, veniva affisso sui muri un manifesto a firma del generale Beccaris che riportava il seguente avviso: «Da domani e fino a nuovo ordine è vietata nell’intera provincia di Milano la circolazione delle Biciclette, Tricicli e Tandems e simili mezzi di locomozione. I contavventori saranno arrestati e deferiti ai Tribunali di Guerra. Le truppe e gli agenti della forza pubblica sono incaricati dell’esecuzione del presente decreto» avvertiva minaccioso il manifesto. Perché tanto timore delle biciclette, dunque, se il generale Fiorenzo Bava Beccaris la sera del 8 maggio aveva telegrafato al Presidente del Consiglio Antonio di Ruidì e al ministro della Guerra Alessandro Asinari, che la rivolta operaia di Milano si poteva « seppur a suon di cannonate?

La spiegazione viene ancora dalle colonne del Corriere della Sera di quel giorno: «». La bicicletta divenne il mezzo più rapido per far arrivare il cibo e gli avvisi ai rivoltosi, che avevano eretto le barricate durante le quattro giornate di Milano. «» si leggeva sulle colonne del quotidiano di via Solferino «».

Tra i rivoltosi arrestati nei moti di Milano del 1898, come riporta la cronaca del Corriere, anche Luigi Masetti, definito per le sue idee «». Nato a Trecenta nel 1864 ventenne andò a lavorare nel Polesine. In seguito emigrò a Milano e poi in Svizzera. A Trecenta entrò in contatto con Nicola Badaloni, medico mazziniano e poi socialista, delle cui idee libertarie ed egualitarie Masetti subì il fascino. Volse, negli anni a venire le sue simpatie verso gli ideali anarchci. Fu uno dei pionieri del cicloturismo in Italia e anche scrittore, narrò attraverso lunghi reportage i viaggi in bicicletta di cui fu protagonista, come quello effettuato nel 1892 che da Milano, grazie a una bicicletta faticosamente acquistata, lo portò in giro per l’Europa pedalando per 3.500 km., e nel 1893, grazie a una sponsorizzazione interamente finanziata dal Corriere della Sera e alle simpatie di cui godeva presso il direttore Eugenio Torelli Vollier, mosse da Milano per raggiungere addirittura Chicago, pedalando per un totale di 7 mila km. La sua notorietà per le imprese realizzate sul finire dell’Ottocento, non gli impedì di essere al fianco degli operai e rispondere dal sellino alla dura repressione che la reazione aveva affidato ai cannoni di Bava Beccaris.