In Germania è ormai patrimonio comune che il riconoscimento della responsabilità per il genocidio degli ebrei europei e per le altre persecuzioni di massa, ai danni di rom, portatori di handicap, omosessuali e oppositori politici, sia un tratto identificativo della Repubblica federale. Il dovere della memoria riaffermato ogni 27 gennaio è considerato quintessenza della cittadinanza costituzionale tedesca. A contestare questo «consenso repubblicano» è, non a caso, la destra xenofoba di Alternative für Deutschland, che vorrebbe invece liberare il Paese dal «senso di colpa» per i crimini nazisti, riabilitando un senso di «orgoglio nazionale» a lungo mortificato. Il passato è presente, dunque. È materiale immediatamente politico, su cui si discute e lotta: vale per tutti i Paesi, ma vale in particolare per la Germania, dove per indicare l’elaborazione del passato esiste una parola specifica del vocabolario, Vergangenheitsbewältigung.
IL 28 GENNAIO
Uno scherzo del calendario fa sì che nel giorno successivo a quello dedicato alla memoria della Shoah cada una «ricorrenza» che invece la Germania istituzionale sembra voler dimenticare: il 28 gennaio di 45 anni fa venne approvato il cosiddetto Berufsverbot, cioè il divieto di lavorare come dipendenti dello stato applicato a tutte le persone considerate «nemiche dell’ordinamento costituzionale liberal-democratico». Frutto di un accordo fra tutti i Länder e il governo dell’allora Germania ovest, guidato dal cancelliere socialdemocratico Willy Brandt, non si trattò di una vera e propria legge, ma di una misura amministrativa adottata dai ministri degli interni degli stati-regione con il beneplacito dell’esecutivo federale di Bonn: nome ufficiale, «Ordinanza circolare sull’impiego di persone di destra e sinistra radicale nella pubblica amministrazione». Nome bugiardo, perché in realtà riguardò solo l’estrema sinistra. L’ideologia di stato giustificava la «difesa dell’ordine liberal-democratico» con il precedente della Repubblica di Weimar, ma nella realtà si trattava di reprimere il dissenso scoppiato con i moti studenteschi. La propaganda più becera rullava i tamburi: «Non vogliamo l’indottrinamento marxista per i nostri figli».
I LICENZIAMENTI
Per finire nel mirino era sufficiente essere iscritto a uno dei partiti dell’opposizione extraparlamentare (come la Dkp, Deutsche Kommunistische Partei, o il maoista Kbw, Kommunistischer Bund Westdeutchlands), o comunque militare in movimenti riconducibili alla matrice sessantottina. Il risultato fu che da quel 1972 circa duemila tedeschi si videro negare il posto di lavoro a cui aspiravano, in particolare quello di insegnante, e oltre duecento vennero licenziati. Senza contare il numero impossibile da quantificare di tutti coloro che, alla luce di questa normativa, rinunciarono in partenza a fare domanda d’impiego nelle scuole, nei comuni, nei ministeri.Una vicenda certamente meno drammatica di stermini e persecuzioni, ma non per questo meritevole di oblio. Una ferita ancora aperta nella vita di molti, ma anche una ferita nella coscienza democratica tedesca. La rielaborazione critica del Berufsverbot, non più in vigore – in quella forma – dal 1991, è ancora lungi dall’essere compiuta. Solo alcuni Länder hanno, negli ultimi anni, dato vita a commissioni per la riabilitazione degli ex «nemici dello stato» cui negli anni Settanta e Ottanta venne impedito di fare il lavoro che desideravano.
DISCRIMINAZIONI
Una palese violazione della stessa Costituzione tedesca del 1949, che vieta le discriminazioni sulla base delle idee politiche (articolo 3), protegge la libertà di pensiero (articolo 5), e garantisce la libera scelta della propria professione (articolo 12). Se ne rese conto, più tardi, lo stesso ex cancelliere Brandt, che definì quell’ordinanza il più grave errore politico della sua carriera. Ma in quei turbolenti anni Settanta la classe dirigente della Germania ovest, Brandt compreso, non mostrò incertezze: ogni mezzo era consentito per arginare il contagio comunista. C’era la guerra fredda, malgrado la politica di distensione condotta dal governo socialdemocratico-liberale (la Ostpolitik), e aveva fatto il suo clamoroso ingresso in scena la lotta armata della Raf di Ulrike Meinhof e Andreas Baader.
Le biografie di chi allora si ergeva a difensore della democrazia dal pericolo rosso aiutano a capire come il Berufsverbot sia stato possibile. Uno dei suoi principali fautori fu Hans Filbinger, governatore democristiano del Baden-Württemberg tra il 1966 e il 1978: prima di rifarsi una verginità nella Cdu fu membro del Partito nazista e giovane giudice militare negli ultimi due anni di guerra, responsabile di diverse condanne a morte. E a stabilire che la circolare anti-estremisti fosse legittima fu una sentenza della Corte costituzionale redatta da Willi Geiger, anch’egli con un significativo passato: con la tessera del partito di Hitler in tasca, nel 1941 dedicò la sua tesi di dottorato al Berufsverbot che escluse gli ebrei dalla professione di giornalista («Il provvedimento ha di colpo eliminato l’influsso, potente e dannoso per la nazione, che la razza ebraica aveva sulla stampa»). Per difendere la legittimità della norma antisemita, l’allora giovane giurista nazista assimilò il mestiere di giornalista a quello di funzionario pubblico, affermando che in entrambi i casi fosse diritto dello stato pretendere fedeltà. La stessa logica che applicò nella sentenza che scrisse trentaquattro anni dopo, divenuto nel frattempo un «difensore della Costituzione».
Le vittime della caccia alle streghe non rimasero ovviamente a guardare. La lotta contro il divieto di diventare dipendenti pubblici, di fatto la proibizione di diventare insegnanti, animò la sinistra extraparlamentare tedesco-occidentale ed ebbe vasta eco anche fuori dai confini: in Francia, ad esempio, levò la propria voce contro il Berufsverbot anche il futuro presidente socialista François Mitterrand, irritando non poco il gruppo dirigente della Spd. Si dovette però attendere la caduta del Muro perché l’ordinanza non avesse più validità.
HEIDELBERG
Le discriminazioni, tuttavia, non cessarono del tutto: alcuni Länder mantennero regolamenti più blandi, ma che di fatto continuavano a porre ostacoli nei confronti di attivisti sgraditi al potere. Ancora nel 2004 un militante dell’area autonoma di Heidelberg, Michael Csaszkóczy, si vide negare un posto da docente in una scuola pubblica. Ne nacque una controversia legale che terminò tre anni dopo con la vittoria dell’aspirante professore, e con la fine, forse, della pratica del Berufsverbot per i «nemici dello stato». Ma se non può più escludere un comunista dal pubblico impiego, la Germania di oggi non sembra disposta a rinunciare del tutto alla prussiana «lealtà di corpo» da parte dei propri funzionari: incredibile ma vero, le leggi tedesche negano a chi è di ruolo nella pubblica amministrazione, insegnanti compresi, il diritto di sciopero. E a tanti, troppi, sembra assolutamente normale.