Avevamo perso di vista Goffredo Parise. Non parlo delle sue opere, quasi classici sempre letti, o citati, come Il prete bello, il romanzo del ’54 che consacrò il successo dello scrittore vicentino, allora venticinquenne; o come le due serie dei Sillabari (riunite nel 1984). Parlo delle relazioni, dell’ambiente culturale in cui l’autore è vissuto e che ha contribuito a creare: avevamo trascurato, cioè, non l’individuo Parise, ma il suo posto nel paesaggio.
A volte, in effetti, la cultura somiglia a un ecosistema: nel medesimo territorio vivono e interagiscono specie facilmente avvistabili e altre meno percepibili. Spesso sono le seconde quelle più resistenti. La ‘specie Parise’, da un decennio a questa parte, è tornata a manifestare la sua presenza grazie soprattutto alla pubblicazione regolare delle opere per Adelphi (l’ultimo titolo è Gli americani a Vicenza, a cura di Domenico Scarpa). A trent’anni dalla morte dell’autore, la sua centralità nel panorama novecentesco è ora ribadita, e illustrata sotto vari aspetti, dal volume di «Riga» (n. 36) che gli è stato dedicato: Goffredo Parise, a cura di Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa, Milano (Marcos y Marcos, pp. 544, euro 28,00).
Il periodico diretto da Belpoliti ed Elio Grazioli è sempre riuscito da un lato a restituire gli autori alla complessità del loro contesto storico-esistenziale, dall’altro a rinnovare lo sguardo critico tanto sulle opere maggiori quanto sui settori più in ombra delle rispettive scritture. Resta memorabile, tra gli altri, il n. 13 su Primo Levi (1997); ma questo su Parise non è da meno, a cominciare dalla prospettiva aperta dai curatori nell’Editoriale: «è invariabilmente all’ultimo Parise che si pensa: a quel miracoloso dizionario dei sentimenti che sono i Sillabari. (…) È questo il Parise ideale, diciamo. Limitandosi solo a questo, però, si perde tantissimo del Parise reale».
Leggere e canonizzare gli autori alla luce dei loro presunti o effettivi testamenti letterari è sempre rischioso; il fatto è che per «arrivare alla perfezione seriale, volutamente meccanica del Sillabario, Parise ha impiegato una vita. Ci sono voluti gli anni di apprendistato a Milano; i viaggi in Asia e in Africa; la vita oziosa e sportiva di scrittore di successo; la piaga immedicabile di bambino senza padre». Sono frasi tratte da uno degli scritti di Cesare Garboli presenti qui nell’ampia antologia di testi critici editi; risponde, nella sezione dei testi critici inediti, lo scritto di Raffaele Manica, che osserva come i Sillabari contengano «il sapere atemporale classico e il suo commento». Ciò che questo volume su Parise permette di fare è, appunto, risalire alle radici di quel sapere, ridare un tempo a quella atemporalità, riavvicinare il Parise ideale e quello reale.
Un contributo importante viene dai testi rari e inediti (narrazioni, cronache e carteggi) che occupano nel complesso poco meno di metà del volume. Tra questi, il romanzo incompiuto La politica (trotto leggero), databile al 1977. Il protagonista, chiamato prima ‘Giorgio’ poi ‘Giacomo’, è un piccolo ragionatore – tra Voltaire e Pirandello – che fin da bambino esprime un atteggiamento di costante, ostinata interrogazione: dapprima sulla scuola, dove si rende presto conto che la relazione con gli altri è un politico gioco delle parti; poi sul regime e infine sulla celebrazione della Resistenza e sui partiti del dopoguerra. Giorgio-Giacomo è figura netta, e fin troppo tipica, di quella divergenza conoscitiva che caratterizza l’opera e la prospettiva di Parise (alla cui vera esperienza, del resto, il personaggio è ispirato).
La divergenza di Parise, che lo rende ancora difficilmente collocabile (sarà anche per questo che la sua opera più astratta, i Sillabari appunto, è anche quella che ha incontrato una fortuna più diffusa), si esprime in varie forme. Per esempio, nella visione del rapporto tra natura e storia; il darwiniano Parise (il suo sguardo «è stato sempre quello di un antropologo che abbia il capolavoro di Darwin come livre de chevet»: così Montale, nel 1970, recensendo Il crematorio di Vienna) non vede infatti una contrapposizione tra l’indifferenziato della società di massa e il mondo della natura: gli «odierni polemisti», scrive Parise a Calvino in una lettera (del 1964) nel carteggio pubblicato qui, non si rendono conto di combattere «proprio il mondo della natura», perché per la prima volta l’uomo ha innestato «il proprio processo organizzativo entro i processi naturali. Per cui naturale è diventare uomo di massa, innaturale (storico) è essere se stessi». La prospettiva è quasi rovesciata rispetto a quella di Pasolini, con il quale pure Parise condivide molti temi e argomenti (Gianluigi Simonetti ricostruisce qui il rapporto di polemica ed emulazione instauratosi tra i due intellettuali). «Il suo reazionarismo è soltanto isterico. È dovuto a un livore che non depone certo favorevolmente sulla sua figura, ma che non va confuso con una scelta politica di destra» scriveva Pasolini recensendo Sillabario n. 1, un libro che giudicava peraltro «straordinariamente bello».
La visione della politica e della società di massa non influenza solo i contenuti di Parise, ma si coglie anche nella scelta dei suoi riferimenti e perfino nella pratica creativa. Si avverte, per esempio, nella presenza necessaria del male (ne parla qui Arturo Mazzarella); e s’intuisce nell’attenzione per Montale e Gadda, modelli non tanto e solo di stile quanto di «un rispettabile prendere le distanze»: che non voleva dire, per Parise, evitare l’esperienza, ma stabilire una distanza conoscitiva, mantenere lo sguardo straniante del bambino nell’incompiuto La politica, e quello vagamente iperreale o surreale di molti romanzi e racconti. L’incontro veneziano con Stravinskij, nel 1949, al cimitero dell’isola di San Michele (Tre pezzi su Venezia e la Laguna) è una situazione emblematica: un paesaggio con reliquie, in cui l’artista incarna la differenza, esprime l’individualità. Siamo ancora dalle parti di Montale, che proprio a Stravinskij e Venezia dedicò una prosa in Fuori di casa. «Per Parise» ha scritto Alfonso Berardinelli «i veri artisti, con la naturalezza della loro produttività e la loro unicità reattiva e autodifensiva garantiscono come nessun altro la biodiversità umana».
Nell’incompiutezza, nel valore dell’inutilità può trovarsi ancora un segno della divergenza parisiana, «il non desiderio di azione in un mondo volto all’azione nell’azione» (così l’autore, in un suo frammento dall’Arizona). È lo sguardo dell’«uomo cinese, che osserva se stesso e l’altro», diversamente dall’uomo occidentale, «preso tutto dalla voracità conoscitiva» (alla voce «Stranieri» di Un sillabario dalla Cina, 1969).
È anche per questo che Parise non indulge allo stereotipo e all’orientalismo, privilegiando piuttosto situazioni e categorie che includono tanto il soggetto che osserva quanto l’oggetto osservato: «L’umanità è animalesca» scriveva da Saigon a Giosetta Fioroni, nel febbraio ’67 «e ancora una volta Darwin ha ragione»